Il linguaggio
tratto da “La storia di Giovanni e Margherita”
Ogni entità dispone di una generica sensibilità che è il portato del suo esistere e coincide con la coscienza di sé.
Ogni entità, utilizzando la sensibilità e l’esperienza, misura le altre entità di cui è fatta la realtà e perviene a un suo modo di vederle.
Quindi, attraverso la verifica del benessere o del malessere che ogni diverso modo di vivere l’esperienza comporta, identifica un modo ottimale di muoversi.
Il modo ottimale di muoversi è il perseguire la volontà di sopravvivere, svilupparsi, riconoscere, essere riconosciuti e raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo.
Tali volontà, in quanto ottimali ai fini dello sviluppo, sono state automaticamente scelte, attraverso la selezione naturale, dal contesto delle entità individuali, e inscritte, a preferenza di ogni altra, quali pulsioni, nel patrimonio conoscitivo di ogni entità.
Per questo motivo le pulsioni originarie costituiscono il sapere originario di ogni individuo.
Questo sapere, in quanto sapere comune e comune modo di vedere la realtà, è la cultura originaria del contesto delle entità individuali.
Si definisce infatti cultura il modo che le entità di un contesto, attraverso il rapporto di forza tra loro, mediano di dover avere in comune nel vedere la realtà.
A un certo livello di specializzazione, la generica sensibilità originaria di cui ogni entità dispone diviene apparato di organi sensorii atti a recepire e comunicare la cultura.
Le entità, quindi, al cospetto l’una dell’altra, ‘detto’ e ‘sentito’ cosa vogliono e come lo vogliono, possono organizzare, dal momento che ‘parlano la stessa lingua’, un modo di muoversi rispondente alle loro esigenze.
Fu così che gli embrioni di quelli che sarebbero poi diventati ‘uomini’ specializzarono la loro generica sensibilità in organi sensorii adatti a comunicarsi le loro culture, sempre più ricche del sapere derivato dalle esperienze di movimento.
Ancora dopo, il crescere della qualità di uomini diede luogo, attraverso lo sviluppo degli organi sensorii, ai primi embrioni di occhio, orecchio, lingua, con i quali quegli ‘uomini’ poterono convenire un codice\linguaggio\cultura tanto evoluto e complesso quanto complesse erano ormai le loro esigenze.
Stabilirono allora, tra l’altro, un sistema di suoni che, in quanto modulabili all’infinito, rappresentarono un modo ottimale per far trasmigrare da un individuo all’altro la ‘forma’ che avevano dato al loro sapere.
Questa comunione di forme del sapere simbolizzate da suoni è ciò che possiamo definire cultura a uno stadio avanzato.
I vari suoni, cioè, assunsero il valore di numero di codice e chiave di accesso a una serie innumerevole di immagini della realtà che essi avevano in comune, o quantomeno credevano di avere in comune.
Ad esempio, il ringhiare di due individui secondo certe tonalità consentì loro di ‘pescare’, nel comune archivio, le immagini corrispondenti.
Tesi dunque nella sfida mortale essi, insieme, ‘videro’, con gli occhi della mente, le immagini sintetiche di tutte le esperienze di violenza che avevano a priori codificato con quella tonalità.
Ovviamente il modo comune di vedere le immagini custodite nell’archivio della cultura è segnato dall’esperienza particolare di ciascuno, e questo da sempre è la causa della difficoltà di comunicare e di avere un modo autenticamente univoco di vedere la realtà.
Con il risultato che i due individui in lotta, pur avendo sufficienti elementi di comunione per identificare quel suono come il segno della necessità della lotta da dover avvenire in un certo modo, in realtà, nello spasmo finale dell’uccidere o dell’essere uccisi, si ispirarono magari, l’uno, alla scena della furia aperta e devastatrice del leone, e l’altro alla fermezza sibilante e implacabile del serpente, credendo nel mentre di star ‘vedendo’ le stesse cose.
Da allora, spinti dal bisogno di ampliare l’archivio comune delle loro immagini mentali, sempre più ricche e numerose, e di schedarle più analiticamente, gli uomini organizzarono i suoni in parole.
La parola equivalse alla classificazione dei suoni in schema vocale ordinato atto a simbolizzare e, direi di più, a far vedere come su di uno schermo circolare e multidimensionale un’immagine apparentemente proiettata dalla mente di tutti gli uomini contemporaneamente e univocamente.
Ovvero sempre con il limite che la proiezione del sapere degli altri, per tutta quella parte legata alla loro esperienza particolare, è solo presunta, ed è proiettata dallo stesso individuo, che la desume per quello che può dall’esperienza di relazione.
Sullo schermo quindi appare un sapere che è la sintesi delle proiezioni che ognuno produce in proprio e per conto di tutti gli altri.
Un sapere che per una parte è autenticamente comune, e per un’altra grossa parte è il risultato di proiezioni tantissime volte arbitrarie, tendenziose o comunque errate.
Ogni parola dunque è la massima espressione simbolica di una cultura.
Più specificamente, ogni parola è il «contenente un contenuto» rappresentato dal massimo del modo comune che gli uomini hanno di vedere la realtà.
Ogni volta che un uomo pronuncia o ascolta una parola essa illumina una parte della sua mente, fatta di immagini, consapevolezze, gioie, dolori, e gliela fa ‘vedere’.
Il succedersi delle parole scatena un fiume di immagini che, un po’ a torto e un po’ a ragione, crede di vedere nella stessa maniera in cui le vede il suo interlocutore.
L’arte è la capacità di descrivere con le parole la realtà che, in quanto sublime, rende sublimi le parole che riescono a farla percepire a ognuno.
Il tacere, il frustrare e il non concorrere allo sforzo comunicativo degli altri causa il più grande avvilimento di chi li esercita e di chi li subisce.
L’incomunicabilità è infatti la negazione di un impegno durato miliardi di anni, attraverso il quale un’entità originaria errante, proveniente da chissà quale spazio, bruta nella sua atroce difficoltà di comunicare, ma sublime nella sua sensibilità, ha ottenuto di poter avere la mano con la quale ti scrivo e gli occhi con i quali mi leggi.