Cristo uomo
tratto da “da Ar a Sir”
Avevo sempre ritenuto che la mancanza di elementi di prova sull’esistenza di Cristo, considerata l’epoca storica alla quale lo si attribuisce, dimostrasse a contrario che non è mai esistito, ma in seguito alla rilettura della Bibbia, che non leggevo da oltre venti anni, mi sono ricreduto: quell’uomo esistette, e la sua assenza dalle cronache è dovuta a una motivazione singolare.
Tale fu cioè la sua grandezza intellettuale, e dunque il suo coefficiente di diversità, che la mente collettiva ebraica decretò su di lui un silenzio che, in vita, egli non riuscì mai a vincere, e che durò fino a quando, solo dopo la sua morte, il mondo ebraico non ebbe modificato la sua immagine fino a renderla ‘ammissibile’.
Se così non fosse non si saprebbe a chi imputare il fatto che nel Nuovo Testamento (la parte della Bibbia successiva a Cristo), o almeno in alcune parti di esso (il discorso della montagna), c’è l’espressione di un livello sapienziale di cui la cultura ebraica non era mai stata capace fino a quel momento e non sarebbe mai più stata capace neanche successivamente, quando cioè, solo poche decine di anni dopo, le parole di Cristo, purtroppo mai scritte, si persero nel grande fiume degli eventi.
Tanta tuttavia era stata la loro forza che furono capaci di operare una profonda trasformazione della cultura\religione ebraica.
Ovviamente, considerata la mia irreligiosità, è chiaro che il Cristo al quale mi riferisco non poteva che essere privo di attributi divini: un mortale dunque, del quale ritengo di aver decifrato la storia personale.
Possedeva una qualità del sapere fondata su una straordinaria capacità di intuire.
Il sapere cioè di chi, infrante le barriere delle pseudoculture funzionali al rapporto di forza complessivo, riconosce la verità traendola dalle alchimie della conoscenza esistenziale profonda.
Le sue parole, traboccanti di quella straordinaria consapevolezza, disattivano e vanificano le argomentazioni dei ‘saggi’, numerosi in tutte le epoche più che le foglie degli alberi.
Sfortunatamente questo essere eccezionale, dotato di un sistema intellettuale profondo come l’oceano, non conosceva la scrittura né, incorrendo in un errore coerente a una mente e a un livello di esperienza storica come la sua, volle conoscerla, forse perché era fondatamente certo, di quella certezza di chi ha il dominio dei pensieri degli altri, che le sue parole sarebbero bastate a cambiare il mondo!
Quello che invece non riuscì a vedere quest’uomo tanto morale da aver saputo spendere un patrimonio mentale incommensurabile come quello contenuto nell’espressione «chi è senza peccato scagli la prima pietra» per la salvezza di un’adultera, la cui vita valeva in quell’epoca meno di quella di una farfalla, ebbene, quello che invece non riuscì a vedere, perché in nessun modo volle accettarla, fu l’ingenerosità degli altri; compresi coloro che lo attorniavano in qualità di discepoli.
E non perché consentirono o contribuirono a che fosse ucciso, perché a questo non c’era rimedio – giacché un uomo portatore di una tale diversità non aveva strumenti, a quello stadio della civiltà, per potersi salvare dalla recriminazione pubblica e privata – ma perché non capì, per l’eccesso di quella stessa generosità che del resto era la sua dote fondamentale, che nessuno avrebbe avuto viceversa la generosità di conservare e riportare le sue parole per come lui le aveva pronunciate, ma ognuno le avrebbe ‘adattate’ in funzione della visione che gli sarebbe convenuto averne in base alle sue personali esigenze; con il risultato di disperderle nella preesistente tradizione ebraica.
Nessuno in sostanza ebbe la generosità – ma chi ne fosse stato capace sarebbe stato un ulteriore ‘Cristo’ – di rinunziare a sé e dedicarsi alla conservazione di quello che riuscì a dire prima che si affrettassero a sopprimerlo per la stessa misera invidia che affligge da sempre la vita del genere umano, e che ha una presenza avvilente nella cultura ebraico\cristiana e nelle culture di massa che da essa sono sorte.
In ogni modo, tale fu la forza di quelle parole che, tra le righe del Vangelo, lasciarono ugualmente le loro tracce in alcune scintille sapienziali che sono da allora la ragione del cristianesimo.
Ma torniamo all’adulterio.
Nel primo dei Vangeli, il Vangelo secondo Matteo, c’è un episodio che riguarda Giuseppe e Maria.
Giuseppe, cioè, scopre che Maria, prima che «abitassero insieme», è incinta, e poiché, dice Matteo, «Egli era giusto e non voleva esporla all’infamia, pensò di ripudiarla in segreto».
A quel punto intervenne però un angelo del Signore, che spiegò al generoso Giuseppe che la cosa era opera dello Spirito Santo, e tutto andò così per il meglio: Gesù, nei tempi e nelle forme previste dalla natura, nacque, Giuseppe ne fu felice, e da quel momento nella cultura dei simpatici napoletani, gente che per una battuta non ha paura neanche di rischiare le fiamme dell’Inferno, nacque l’espressione secondo la quale, quando gli autori delle cose non rientrano fra quelli di cui è dato sapere con mezzi terreni, è opportuno archiviare il caso fra quelli accaduti «in virtù dello Spirito Santo».
Se insomma si vuol tener conto anche del punto di vista degli atei, che non possono in quanto tali credere né allo Spirito Santo né ai miracoli (oltretutto il dogmatismo è sempre meno funzionale al contratto sociale moderno), Maria era incinta, e non di Giuseppe.
Di talché, con quella struggente, commovente capacità degli uomini come delle donne, di ingannare innanzitutto se stessi prima di disporsi a ingannare gli altri, diede luogo nella mente e negli occhi suoi e del buon Giuseppe al miracolo dell’annunciazione da parte dell’Arcangelo Gabriele.
Solo così si spiega l’innata determinazione, la certezza, con la quale quel neonato urlante, senza indugio, ..nella sua qualità di figlio di Dio in persona, si predispose a liberare il mondo dai suoi peccati, ..suscitando il mito della sua resurrezione per continuare a crescere nei secoli dei secoli nonostante duemila anni di aberrazioni dei suoi seguaci, discendenti del resto di quei suoi contemporanei che, da vivo, per effetto dell’invidia feroce di quell’intollerabile diversità, lo avevano circondato di quel muro di silenzio sublime, benché per altri versi atroce e incredibile per l’assurda univocità di tante persone che pure insieme sapevano, affinché non trapelasse nulla che potesse salvarlo dal lago di nera solitudine in cui tuttavia riuscì ad accettare di morire sorridendo della tenerezza di sapere che il silenzio e l’ostilità degli altri non erano in fondo che il segno del loro riconoscimento e affetto, e che stava contribuendo a far sì che, chissà quanto tempo dopo, stimolati da qualcun altro più organizzato di lui nel non farsi scannare, quei mentecatti urlanti ai piedi della croce avrebbero finalmente trovato dentro di loro quell’atomo di coraggio e di generosità dal quale era iniziato il suo straordinario viaggio verso la conoscenza.
Cristo infatti non si è mai proclamato figlio di Dio, perché era ateo, e l’affermazione della sua divinità fu solo un modo di negarlo in quanto uomo.
Il mondo ebraico, così come il successivo, nascente mondo cristiano, mistificò cioè il suo messaggio per relegarlo, in quanto Dio, nella metafisica, sia per odio verso la sua stupenda intelligenza, e sia per soffocare la grande potenzialità di cambiamento del suo vero messaggio che, se correttamente divulgato, avrebbe prodotto un mutamento qualitativo della cultura dell’uomo che invece non c’è stato.