Categorie
Estratti Uncategorized

La pazzia da un punto di vista tecnico

La pazzia da un punto di vista tecnico.

Il suo modo di introdursi nel sistema mentale.
tratto da “La storia di Giovanni e Margherita”

 

 

La pazzia è una forma del conoscere viziosa a struttura altamente invasiva, che pervade delle sue significazioni e delle sue connotazioni tutte le altre forme del conoscere.
Essa è composta dalle forme del conoscere alterate di cui ho parlato nelle pagine precedenti.
Le strutture ideologiche, specie in coloro che sono positivi e negativi nello stesso tempo, e comunque in una qualche misura sempre, in presenza di una cultura tanto ambigua quanto quella occidentale in generale e consumistica in particolare, hanno, già di per sé, per la diversità di segno delle pulsioni, forti elementi di instabilità.
Quando poi, in una tale situazione, una forma del conoscere troppo anomala, generalmente sotto la pressione di una qualche esigenza, invade tutte le altre, crea l’alterazione di ognuna di esse e della mente.
Un’alterazione che avverrà prima e più facilmente nelle forme del conoscere positive, perché sono fatte a loro volta di quelle forme del conoscere più organizzate e complesse, che servono a garantire l’interrelazione.
Viceversa le forme del conoscere negative – in quanto rette dall’essenzialità dell’egoismo e ‘guidate’ dal filo conduttore certo delle proprie esigenze – resisteranno di più (è per questo che il pazzo è egoista, insopportabile, scostumato).
Poi però, nell’impatto con la recriminazione – poiché l’egoismo è necessario soprattutto per sopravvivere, mentre l’altruismo per vivere e svilupparsi – l’individuo si adopererà in tutti i modi per ricostruirsi le forme del conoscere positive, che gli servono per reinserirsi nel livello di rapporto sociale che desidera.
Se quindi gli si daranno gli strumenti per riorganizzare le forme del conoscere positive, egli – sempre nell’ambito dei suoi limiti e dei suoi obiettivi – cercherà di farlo.
I tempi di questa riorganizzazione possono essere anche veloci, se l’individuo ha stimoli adeguati, benché l’evoluzione delle forme del conoscere richieda un certo tempo tecnico (tema della velocità di pensiero, ovvero tema della velocità di organizzazione delle forme del conoscere).
La presenza di forme del conoscere anomale, che potremmo definire come dei ‘groppi’ caratterizzati da un tale livello di densità da essere meno sensibili alla logica delle pulsioni, è proprio ciò che ha generato la concezione convenzionale della pazzia come non meglio identificato status ‘altro’, quasi fosse alieno dai vincoli della causalità necessaria.
Groppi che invece restano delle forme del conoscere sensibili a tutte le altre e dominati dalle pulsioni fondamentali.
Groppi cioè che, anch’essi, come ogni altra forma del conoscere, si attestano in tutte le altre forme del conoscere, premendole, opprimendole e alterandole, ma, ribadisco, in una logica in cui su tutto dominino sempre e comunque le pulsioni\forme del conoscere di base.
Ovviamente ci saranno dei groppi in cui la presenza di forme del conoscere errori, terrori, visioni, allucinazioni, esagitazioni, esasperazioni, enfasi, renderà più difficile il lavoro delle pulsioni fondamentali, senza però riuscire a impedirlo del tutto.
In questo, solo certe forme del conoscere legate a cause esterne al normale modo di funzionamento della mente (traumi, eventi eccezionali) presentano relative, forti o fondamentali diversità.
Le droghe, ad esempio, causeranno allucinazioni prevaricanti e stati d’animo che il sistema mentale non genera mai spontaneamente.
Tuttavia, salvo l’alterazione graduale della materia cerebrale, non è detto che l’individuo non possa trovare anche per esse una qualche collocazione nella mente.
Queste visioni infatti lo domineranno mentre le vive, ma poi, con un po’ di metodo, le potrà sviscerare, e dunque risolvere, sempre, è chiaro, che non siano troppo reiterate o eccessive.
Osserviamo peraltro come la pazzia – non solo si configuri come una ‘scelta’ che l’individuo fa nel momento in cui non riesce più a reggere un certo livello di rapporto di forza – ma richiede addirittura una ‘tecnica’ per essere attuata.
Essa consiste nell’isolare certe forme del conoscere, o aspetti di esse, e amplificarle, esaltarle, modificarne la congruità, utilizzandole per divenire aberranti.
Questo sempre e comunque sotto il dominio e la vigilanza delle forme del conoscere\pulsioni fondamentali.
Pulsioni fondamentali tra cui la pulsione al disimpegno, che è alla base di ogni tipo di problematiche, ma resta indispensabile, perché serve a evitare la sovrapproduzione di impegno e di risultati, che stravolgerebbe ogni processo, e garantisce automaticamente l’erogazione della quantità e qualità ottimale dell’impegno: la minore possibile rispetto al massimo del risultato.
Non bisogna però trascurare, quanto alla difficoltà di decodificare i processi psichici (e guarire), che le forme del conoscere e i groppi sono sempre frutto anche di moltissime ‘preesistenze’, ovvero di infinite altre forme del conoscere e groppi che in essi sono confluiti precostituiti.
Preesistenze che sono uno dei motivi per i quali, nel decifrare i processi, non si riesce ad andare oltre un certo limite.
Ogni cosa cioè, che sia un astro, una galassia, un’idea, una mente, o un groppo, è sempre fatta di altre infinite cose che preesistevano e sono entrate in essa per come erano.
Preesistenze che, una volta entrate nella nuova cosa, vi interagiscono in infinite maniere praticamente impossibili da decifrare.
Con il risultato che sovente, per influire sul comportamento, non resterà altro che il farvi pressione, perché, quale che sia il livello di complessità di cui è frutto in ipotesi un atteggiamento, la pressione lo cambierà.
Per fare un esempio brutale ed estremo ma chiaro, si pensi alla ‘giostra’ che si usa per allenare e\o educare i cavalli.
Una giostra costituita da una ruota divisa in alcuni comparti da reti metalliche elettrificate a basso voltaggio (elettrificazione, credo, oggi vietata in Italia).
Ebbene, non importa quanto sia folle un cavallo, nel momento in cui lo si chiuda in uno scomparto della ruota e la si avvii, subita che avrà la scossa sul posteriore, e quindi sul muso, inizierà a marciare a passo regolare riuscendo a non urtare più né avanti né indietro, e sarà possibile domarlo o addestrarlo.
Un comprimere i comportamenti che va senz’altro superato per tutto quanto vi sia in esso di inumano o incivile, cercando di ricorrere a tecniche di persuasione, educazione e anche di aggiramento (dei problemi) a vari livelli di civiltà o di sofisticatezza, ma a cui però bisogna ricorrere quando serva.
Sempre però che sussista un controllo adeguato sui controllori, i quali altrimenti diverranno sistematicamente un rimedio peggiore del male.

Categorie
Estratti Uncategorized

Le due regole fondamentali dell’esistere

Le due regole fondamentali dell’esistere

tratto da “La storia di Giovanni e Margherita”

 

Le due forze in virtù delle quali il contesto si svolge sono quella repulsiva e quella attrattiva: l’odio e l’amore.
Il contesto, per potersi sviluppare, necessita innanzitutto che ogni individuo odi gli altri.
Ciò perché gli individui sono tutti indistintamente animati dalla velleità di riconoscimento, cioè dal desiderio di esserci ed essere riconosciuti senza le opere.
Essi insomma vorrebbero immediatamente per se stessi tutto ciò che è possibile avere, a prescindere sia dai meriti che dalla capacità di esercitare i ruoli.
Il che causerebbe la rovina del contesto.
La natura, dunque, ha dovuto selezionare una serie di pulsioni atte a costituire uno stabile sistema di controllo aprioristico rivolto a impedire l’esercizio delle velleità.
Tali pulsioni sono rappresentate dalle infinite valenze dell’odio, cioè dalla gelosia, irosità, vendicatività, risentimento, avversione aprioristica verso ogni elemento di novità nel quale non si sappia che ruolo si potrà avere, e così via.
Pulsioni tutte caratterizzate, per ragioni di maggior sicurezza, da una forte tendenza a degenerare, trasformandosi in invidia, cinismo, perfidia, cattiveria gratuita, ferocia, non appena si verifichino situazioni di crisi del contesto, nelle quali gli individui, spezzati gli argini delle regole, tendano con maggiore determinazione ad affermarsi immoralmente.
Questo per far sì che sussista sempre un alto livello di garanzia che possa affermarsi solo chi è in grado, attraverso i gesti positivi, di superare, mediare, risolvere, quel regime di odio che è tanto più elevato nella società, quanto maggiore è la sua crisi.
Ovvero solo chi  –  di fronte all’odio degli altri – sia in grado di trasformare la sua velleità di riconoscimento in volontà (volontà come insieme di condizioni atte a poter volere) di essere riconosciuto attraverso le opere che concretamente è in grado di compiere.
Va da sé che, come strumento ulteriore di controllo, rivolto questa volta a impedire la velleità di odio, cioè che l’odio possa esplicarsi illimitatamente, impunemente e senza ragione, anche l’esercizio eccessivo o improprio delle pulsioni negative tenderà ad attirare sugli iniqui, a opera dell’universo positivo, forme di penalizzazione corrispondenti alla qualità e quantità di iniquità di cui si siano resi responsabili.
Si osservi infatti che – ferma restando la volontà di affermarsi senza le opere, che sussiste in qualunque stadio (raggiungere il massimo risultato con il minimo dell’impegno) – generalmente l’universo positivo prevale su quello negativo.
Questo perché il concetto di positività implica il dare, così come il concetto di negatività implica il non dare e il togliere, e ciò, poiché il riconoscimento è fondato sul ricevere, tende a causare il prevalere del meglio rispetto al peggio.
La ricerca morale, dunque, consiste nella ricerca di un livello di mediazione sempre più evoluto (giustizia) che consenta di modulare la qualità e quantità di odio, e quindi di amore, idonea a realizzare l’armonia del contesto nei vari momenti e in funzione delle varie esigenze.
È chiaro in sostanza che il superamento della fase dell’odio può solo produrre il rispetto delle regole, mentre solo l’amore contiene in sé il germe di quegli elementi propulsivi atti a determinare lo sviluppo e l’armonia.
L’odio cioè gioca il suo ruolo nel momento in cui le entità individuali, ai fini della sopravvivenza e dello sviluppo, si incontrano (scontrano), e l’amore nel momento in cui, stabilitosi il rapporto di forza, sempre ai fini della sopravvivenza e dello sviluppo, mediano le regole della coesistenza.
Il momento attuale dello sviluppo è tale che, in virtù dell’affermata democrazia, a nessun uomo è dato di vantare una diversa umanità di un altro, ma solo una maggiore o migliore specializzazione.
Il che significa che a ciascuno vanno riconosciuti diritti tali da garantire un’esistenza libera e dignitosa, ma anche che vanno riconosciuti maggiori diritti a chi ha maggiori meriti.
Ciò allo scopo di ottenere che ciascuno eroghi il miglior livello di impegno che sia in grado di erogare, e che anche i migliori – oppressi fin dalle più remote scaturigini della cultura di massa dalla miriade degenerata delle valenze dell’invidia – siano posti in condizioni di potere e volere offrire al contesto la loro speciale qualità di impegno, senza la quale non ci può essere sviluppo.
Sempre nei limiti, naturalmente, dell’interesse del contesto a concedere il maggior diritto per ottenerne in cambio il maggiore contributo.
La democrazia evoluta è la massima e migliore espressione dell’essere l’uomo diverso e maggiore di ogni altra forma vivente.
Con essa l’uomo è riuscito a stabilire un livello di mediazione fra le due forze originarie dell’odio e dell’amore, e fra le pulsioni originarie, che di esse sono espressione, completamente nuovo e straordinariamente rivoluzionario rispetto a quello finora espresso da ogni altra forma di vita.
Le altre forme di vita, e anche l’uomo fino a questo momento, si sono infatti, solo e sempre, sviluppate in virtù della prevaricazione, attuata oggi attraverso gli strumenti della tendenziosità.
Ebbene, per la prima volta nella storia dell’universo conosciuto, la volontà di prevaricazione si è dovuta convertire, a causa della democrazia, in diritto a esserci ed essere riconosciuti (per poter quindi riconoscere) quando si siano compiute le necessarie opere, intendendosi per opera, gesto di contributo alla vita degli altri.
La sola forma di prevaricazione possibile nel contesto civile è quella che si realizza mediante l’utilizzo truffaldino della specializzazione (crimine del signoraggio primario e secondario delle banche centrali e di credito).
Essa però è in crisi crescente perché l’uomo di oggi se ne difende con una forza sempre maggiore che lo porterà ad affermare un sempre maggiore livello di democrazia.
È necessario però che il contesto non dimentichi che la radice del gesto amoroso è pur sempre la volontà di prevaricazione, per evitare il rischio di un coefficiente di ipocrisia troppo elevato.
Le due regole fondamentali dell’interrelazione nel contesto civile sono dunque:
1) il diritto a esserci ed essere riconosciuti si conquista con le opere di contributo alla vita degli altri;
2) il diritto a vivere che tutti hanno comporta la necessità, che è amorosa, di negare (previa disamina analitica della fondatezza delle ragioni di ciascuno, e nei limiti, nelle forme, e con gli obiettivi della morale, del diritto e più in generale dell’intelligenza) chi ci nega, per potere così salvare se stessi e contribuire, a mezzo della propria vita salvata, sia alla vita del contesto che alla vita di chi ci ha negati, indicando inoltre a quest’ultimo la necessità di cambiare allo scopo di poterlo ritrovare.
Il modo e la misura della negazione, alla quale, instauratosi il rapporto di forza, consegue il riconoscimento nelle rispettive qualità, sono i temi dell’educazione, della morale, della politica, del diritto, e insomma della cultura.
Da queste due regole fondamentali nasce la ragione di considerare alcuni comportamenti come virtù e altri come difetti, ed esse in sintesi rappresentano il contenuto dell’intelligenza.
È implicito nelle due regole che ciascuno cercherà di percorrere quei sentieri attraverso i quali possa più facilmente e meglio esserci ed essere riconosciuto.
Questa migliore o peggiore, maggiore o minore capacità\possibilità di esserci e di essere riconosciuti dagli altri con i propri comportamenti darà luogo alle categorie dell’amore\odio, affetto\disaffezione, simpatia\antipatia, partecipazione\gelosia e quanti altri mai sentimenti albergano nell’animo umano.
Il contesto, e quindi ogni individuo, dovrà avere un atteggiamento spontaneamente positivo nei confronti di coloro che – bambini, pazzi, malati, e in genere soggetti deboli – non riescano ad affermare da soli in maniera corretta il loro diritto a esserci ed essere riconosciuti.
Diversamente il meccanismo della giustizia necessaria, in virtù del quale all’interno di ogni processo sussistono delle forze che lo spingono verso l’omogeneità, causerà che la loro debolezza divenga una forza (di nuovo nei limiti della giustizia necessaria, per evitare che si giunga alla prevaricazione da parte dei deboli), ed essi coinvolgeranno il contesto nel loro malessere.

Categorie
Estratti Uncategorized

Il ricatto fiscale

Il ricatto fiscale

tratto da “La civiltà degli onesti”

 

E’ naturalmente falso che le nostre tasse medie siano anche solo paragonabili a quelle di altri paesi europei. Chi lo dice finge di non sapere che oltre a quelle tasse in relazione alle quali avviene la comparazione, ce ne sono da noi svariate altre, dirette, indirette, mediate, occulte, subdole, trasversali eccetera che rendono il prelievo globale ben maggiore di quello di altri paesi. Da noi inoltre le tasse non bastano nemmeno a finanziare l’immenso apparato burocratico, mentre negli altri paesi vengono utilizzate anche per garantire i servizi, sicché chi le paga riceve dei corrispettivi, mentre qui, dopo aver pagato, occorre ripagar tutto daccapo con una capillarità che non credo abbia simili. Con il risultato che in Italia moltissimi si credono evasori senza sapere che in qualunque modo decidano di vivere continueranno comunque ad erogare allo Stato il 60% di quello che spendono, perché le tasse sono intrinseche fin alle intime essenze della materia stessa di qualunque oggetto decidessero eventualmente di acquistare. Non del tutto vero è pure che “i lavoratori subordinati siano gli unici a pagare le tasse”, perché la verità è che i lavoratori subordinati si vedono detrarre ogni mese dal reddito quanto previsto per tasse e contributi, sicché giustamente se ne rammaricano, ma quel denaro deve pur uscire dal bilancio delle imprese, sicché si configura di fatto come una tassa alle imprese sulle retribuzioni. In tutto questo, comunque, ciò che è sfuggito ai cinque milioni di titolari di partita IVA è che l’evasione – un’evasione che non impedisce alla Stato, in mille e mille maniere diverse, di rastrellargli fin la polvere che hanno in tasca – è lo strumento di cui l’apparato pubblico si serve per ricattarli. Un ricatto indispensabile per frenare la rivolta fiscale. Solo quando i titolari di partita IVA saranno stati messi in grado di pagare le loro tasse senza evadere potranno infatti essere veramente produttivi. Questo perché l’evasione fiscale alla quale sono costretti gli impedisce di organizzarsi secondo le regole di una vera trasparenza, di cui sarebbero i primi a giovarsi, poiché i sotterfugi ai quali ogni evasore è costretto rendono molto problematica la razionalizzazione del lavoro e la delega dei compiti. Ora, quando Rifondazione Comunista si scaglia contro i detentori di partita IVA accusandoli di una evasione fiscale di 250.000 miliardi di tasse annuali non è da escludere che quel dato sia esatto, ma se lo è, lo è solo in relazione alle assurde aliquote vigenti. Ne deriva che se attraverso una profonda revisione del sistema e delle aliquote si riformulasse il contratto sociale in una maniera che i detentori di partita IVA potessero pagare le tasse che pagano oggi più 50.000 dei 250.000 miliardi che secondo Rifondazione e secondo le aliquote attuali vengono evasi, si recupererebbero 50.000 miliardi in più all’anno e si libererebbero i contribuenti dalla schiavitù dell’evasione e delle pastoie che comporta. Perché non lo si fa? Perché la condizione per poterlo fare è una razionalizzazione del meccanismo che avrebbe come primo effetto un forte ridimensionamento dell’apparato pubblico! Un ridimensionamento che se i detentori di partita IVA non fossero ricattabili con l’accusa di essere evasori rispetto a delle aliquote impossibili, avrebbero la forza di chiedere. Quanto alla necessità di un ridimensionamento dell’apparato pubblico, faccio notare che la famosa, mitica, faraonica burocrazia europea, conta tra Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo, 20.000 addetti circa, mentre nella sola città di Napoli l’apparato pubblico conta complessivamente circa 52.000 persone. Persone che hanno diritto naturalmente alla conservazione nei limiti di tutto il possibile delle posizioni acquisite, ad un reddito e ad un’esistenza libera e dignitosa, ma che proprio per questo hanno diritto a veder trasformato l’apparato in cui soffocano in un vero apparato produttivo. Io non sono insomma per il ridimensionamento dell’apparato pubblico, visto che c’è; ma per la sua trasformazione in un prodigioso apparato produttivo, che innanzitutto si dedichi, in tutto il meridione, alla ristrutturazione in senso fisico del territorio, perché ci siamo ridotti al punto che solo per liberarci della spazzatura stratificata che siamo stati capaci di accumulare ci vorranno alcuni anni di lavoro della nostra intera comunità. Questo magari anche al fine del turismo, ma innanzitutto per poter usufruire noi stessi della nostra terra.

Categorie
Estratti Uncategorized

La truffa alimentare

La truffa alimentare. La legge per l’etichettatura
dei prodotti agricoli ed ittici nella vendita al dettaglio

tratto da “La civiltà degli onesti”

 

In relazione alla mia legge sull’etichettatura, la magistratura fa finanche finta di non capire che, poiché la frutta, la carne e il pesce sono profondamente diversi secondo le provenienze, costituisce artifizio e raggiro l’indurre al loro acquisto senza chiarire che, in ipotesi, il prezzo è inferiore perché la qualità del prodotto è infima in funzione della sua provenienza.
Ed è insopportabile che nemmeno ora che mi trovo io dinanzi al giudice per altri motivi si prendano in considerazione le mie denunzie alla televisione di Stato, che mi impedisce di informare la collettività di una proposta di legge che ho scritto da tre anni e vale centinaia di migliaia di miliardi di lire l’anno di fatturato, e dunque la fine della crisi economica del nostro paese.
Magistratura che sa di quella legge e sa che non assumere provvedimenti affinché la televisione di Stato adempia al suo ruolo di garantire l’informazione consentendomi di parlarne pregiudica gravemente gli interessi e i diritti degli italiani (chiedo di parlarne io perché ogni volta che ne parla qualcun altro, non so se a caso o deliberatamente, lo fa travisandola, magari anche solo per nascondere che l’ho scritta io).
È ovvio infatti che, siccome i prodotti agricoli e ittici italiani sono i migliori del mondo, nel momento in cui sui banchi dei fruttivendoli, macellai e pescivendoli comparissero delle etichette attraverso le quali divenissero identificabili, la gente li preferirebbe a quelli non altrettanto buoni di altre provenienze.
Inoltre, l’affermazione della superiore qualità dei nostri prodotti espressa attraverso la voce dell’intera società italiana ne aprirebbe in maniera clamorosa le esportazioni.
Né nessuno potrebbe opporre limiti di quote, perché nessuno può vietare a nessun cittadino di nessun paese del mondo di nutrirsi dei prodotti migliori per ragioni di quote.
Principi giuridici a un tempo facili e difficili, che non proprio tutti sono in grado di spiegare con sufficiente chiarezza agli altri paesi dell’Unione, ma che alla fine l’Italia riuscirebbe sicuramente a far capire al mondo, perché, come ho già detto, il migliore avvocato è quello che sa scegliersi le cause, e vincere una causa così fondata sarebbe facilissimo.

Categorie
Estratti Uncategorized

L’elemento distintivo fra la qualità di uomo e quella di animale

L’elemento distintivo fra la qualità di uomo e quella di animale

La definizione di intelligenza
Il sofisma

tratto da “da Ar a Sir “

Il rapporto fra le entità individuali è un rapporto di forza che si svolge sulla base delle pulsioni naturali (volontà di sopravvivere, svilupparsi, riconoscere, essere riconosciuti, raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo).
Gli individui vincitori, poi, innescheranno il processo selettivo dando luogo a contesti di individui dotati ogni volta della forma vincente (Secondo la mia teoria sulla somatizzazione del volere degli individui, quando un contesto ha in comune una volontà, gli individui che hanno una forma più adatta all’esercizio di quella volontà vincono sugli altri determinando un contesto caratterizzato dalla forma vincente.).
Pertanto – fermo restando che nessuna entità pratica mai il mero odio, perché la natura non l’ha selezionato in quanto inidoneo allo sviluppo – la possibilità di continuare a esistere o di svilupparsi delle entità più deboli resta soprattutto affidata alla capacità di resistere alla prevaricatorietà delle più forti.
Ciò in un regime di contrattualità continua che coinvolge, istante per istante, fin la struttura infinitesimale di ogni soggetto del rapporto contrattuale universale.
Orbene, l’uomo è divenuto tale nel momento in cui un’entità fino ad allora animale ha acquisito un diverso e maggiore momento qualitativo e quantitativo della consapevolezza di poter raggiungere un superiore livello di benessere attraverso il concorrere alla vita e allo sviluppo degli altri individui.
Tale speciale consapevolezza, acquisita in seguito a chissà quali e quanto remoti trascorsi esperienziali, di lì a poco avrebbe dato luogo alle prime categorie mentali dell’intelligenza: forma del conoscere che solo l’uomo possiede e che comparve allora per la prima volta nella storia dell’universo conosciuto.
Successivamente, a un gradino di sviluppo superiore, essa avrebbe dato luogo agli schemi primordiali di quelle forme del conoscere che usiamo definire altruismo, sensibilità, generosità eccetera, che rappresentarono la base per poter procedere alla costruzione di tutte le altre forme del conoscere indispensabili a vivere correttamente l’interrelazione fra individui che appunto, da quel momento, sarebbero stati umani (in Cucciolino, una favola, definisco l’altruismo come la capacità di perseguire la propria felicità attraverso la felicità degli altri).
Da allora, la furberia, forma del conoscere di tipo animale dovuta alla volontà di privilegiare se stessi, che già rappresentava un passaggio di qualità rispetto alla mera prevaricatorietà naturale, andò trasformandosi in qualcosa di diverso che di lì a poco avrebbe assunto le connotazioni tipiche delle forme di intelligenza più avanzate, ovvero di quelle forme del conoscere\culture atte a dar luogo a una speciale percezione, prima delle esigenze altrui, e quindi del livello di contrattualità umanissima e indescrivibile vigente fra esse e le proprie.
Il passaggio intellettuale ulteriore consiste nella decodifica e nella formulazione, ma a livello questa volta concettuale, dei principi impliciti nell’esercizio di quella metodica, che l’uomo acquisì allora solo a livello di conoscenza esistenziale, cioè a dire nella scoperta del modo di formazione del pensiero e nella formulazione delle due seguenti regole comportamentali:
-Il diritto a esserci ed essere riconosciuti si conquista con le opere, intendendosi per opera gesto di contributo alla vita degli altri.
-Il diritto a vivere che tutti hanno comporta la necessità, che è amorosa, di negare (previa disamina analitica della fondatezza delle ragioni di ciascuno, e nei limiti, nelle forme, e con gli obiettivi della morale, del diritto e più in generale dell’intelligenza) chi ci nega, per potere così salvare se stessi e contribuire, a mezzo della propria vita così salvata, sia alla vita del contesto che alla vita di chi ci ha negati, indicando inoltre a quest’ultimo la necessità di cambiare allo scopo di poterlo ritrovare.
Di talché, considerato l’individuo come il centro di un cerchio, si può dire che egli è tanto più intelligente quanto più è ampio il cerchio delle esigenze altrui che, in base a queste due regole, riesce a contenere nell’ambito del suo raggio di azione mediandole con le sue.
Al punto che vi sono individui i quali, nel loro operare, abbracciano un cerchio di esigenze tanto ampio da non essere percorribile per le varie tipologie di furbi, che infatti, tecnicamente incapaci come sono di ‘vedere a un palmo dal naso’ (dalle loro esigenze), usano definirli pazzi, nel senso di alieni dalle cose che, essendo le sole che con la loro vista corta riescono a vedere, gli sembrano essere le uniche che un uomo ‘concreto’ dovrebbe perseguire.
L’intelligenza si è poi sviluppata in quella serie innumerevole di forme del conoscere che, in uno stupendo meccanismo di contemporanea totale autonomia e di altrettanto totale interrelazione, rappresentarono, dopo chissà quanto tempo dall’inizio di questo processo, la mente umana.
(In questi mesi sto scrivendo il Dizionario delle forme del conoscere e se, anziché essere stato tanto stupidamente avversato, fossi stato sostenuto, oggi, questo testo che non cessa mai di sorprendere finanche me che lo sto scrivendo, sarebbe probabilmente già finito e tradotto).
La furberia tuttavia, nonostante sia perniciosa, non è affatto sparita dal sistema mentale dell’uomo; anzi, sotto la pulsione, pure indispensabile allo sviluppo, della volontà di impegnarsi poco o per niente, e di avere in cambio molto o moltissimo, si è trasformata in tendenziosità, laddove per tendenziosità si intenda la capacità di strumentalizzare l’intelligenza alle finalità della furberia.
Ciò attraverso un gran numero di forme della tendenziosità fra le quali l’ipocrisia, la falsità, il moralismo, il perbenismo eccetera.
In particolare, specie oggi che nel mondo civile non è più possibile esercitare il potere utilizzando la forza, ma si ha sempre bisogno del consenso, si è avuto uno sviluppo spropositato di tutte quelle forme di tendenziosità\fraudolenza che, sotto le mentite spoglie della civiltà, servono a mascherare livelli di barbarie in singolare contrasto con l’evoluzione che l’uomo per altri versi ha avuto.
Va da sé, finalmente ci siamo, che lo strumento per raggiungere i vari obiettivi fraudolenti è l’uso artificioso (o il non uso) delle parole, ovvero il dialogo immorale, al quale segue poi l’immoralità dei gesti.
Un significativo esempio lo possiamo trovare, allo stadio più rozzo, nelle sentenze pronunziate fin qui in questa causa.
Altri esempi più evoluti si ritrovano lungo tutto il cammino della storia, e valga l’esempio massimo del sofisma: scienza delle parole mirante a sconfiggere la Verità mediante l’utilizzarla strumentalmente.
Ed è così che l’utilizzo comunque errato della morale dialogica ha dato luogo alle due fondamentali correnti culturali dalle quali, dalle origini ai giorni nostri, ma soprattutto dall’insorgere della prima fondamentale cultura democratica di massa, quella ebraica, sono scaturite tutte le pseudoideologie all’interno delle quali l’uomo – senza che ciò gli impedisse di dare alle sue finzioni forme e connotazioni per altri versi eccezionali – è vissuto finora.
Esse sono il misticismo e il razionalismo, ed entrambe sono errate.
L’unico metodo conoscitivo corretto è infatti il misticismo razionalistico.

Categorie
Estratti Uncategorized

Il Conscio e l’inconscio

Il conscio e l’inconscio

tratto da “La storia di Giovanni e Margherita”

 

L’individuo – salvo le difficoltà ad accedervi – è ‘conscio’ di tutto il suo sapere.
Egli però esprime questo sapere su due diversi piani: il piano della conoscenza esistenziale e il piano della conoscenza concettuale.
Il sapere esistenziale coincide con ciò che la scienza convenzionale definisce inconscio, e il sapere concettuale con ciò che definisce conscio.
Attraverso il sapere esistenziale (inconscio) l’individuo si muove sul mero piano della realizzazione dei suoi desideri, che cerca di attuare mediante un utilizzo più fortemente strumentale delle sue conoscenze.
Egli, cioè, sul piano della conoscenza esistenziale, e attraverso le forme del conoscere, adatta continuamente il suo sapere alle varie situazioni in una maniera che gli consenta di salvaguardarsi e privilegiarsi.
La conoscenza esistenziale si sostanzia in un numero elevatissimo di tecniche e di strategie comportamentali sviluppatesi nel corso dei millenni, e ciascun individuo, per quanto incapace di capirle a livello concettuale, ne è padrone ed è abilissimo nel porle in essere.
Questo per il semplice motivo di avere rispetto a esse un filo conduttore certo rappresentato dalle sue esigenze, che conosce bene, e rispetto alle quali, di solito, non ha dubbi.
A causare la grande evoluzione del sistema intellettuale esistenziale è proprio la forte determinazione con cui ogni individuo persegue i suoi fini.
È questa determinazione che, nell’incontro\scontro degli individui, produce la necessità di strategie comportamentali, prima individuali e poi sociali, sempre più raffinate e complesse.
Il comportamento quindi, in quanto diretta espressione della conoscenza esistenziale, è portatore nell’individuo di un livello elevatissimo di ‘consapevolezze’ che generalmente sul piano concettuale non è in grado di decodificare.
Fino al punto che, benché vittima ‘ignara’ delle culture, arriva ad adoperarle, esse finzioni, di nuovo come finzioni.
Tant’è che sovente si parla di codice comportamentale o di linguaggio in codice come di qualcosa che, decodificato, evidenzia strategie estremamente complesse anche in individui semplici.
La possibilità di basare il comportamento sulla mera conoscenza esistenziale è però ora in crisi a causa dell’attuale, più evoluta democrazia.
Le culture precedenti infatti, essendo caratterizzate da un livello di mediazione stabilizzatosi nei secoli, si svolgevano sul piano del sapere esistenziale (inconscio) in una misura di gran lunga maggiore di quella oggi possibile.
In esse, affermatisi i vari rapporti di forza e stabilitisi i ruoli, scattava la celebrazione ‘inconscia’ delle finzioni dell’altruismo\culture attraverso le quali ciascuno cercava di sopravvivere o di vivere il più possibile in quell’ambito di equilibri prevaricatorii all’infinito che nessuno pensava di poter mettere in discussione.
L’individuo moderno viceversa, a causa dell’insorgere di ciascuno rispetto ai ruoli e della complessità della vita sociale, sempre più è costretto alla decodifica del suo comportamento, e dunque alla decodifica della conoscenza esistenziale (inconscia), che diviene a quel punto conoscenza concettuale (conscia).
Diviene cioè sempre più arduo adattare le vecchie forme del conoscere alla molteplicità contraddittoria delle situazioni.
Ne deriva che gli individui, muovendosi ‘inconsciamente’ e tendendo indiscriminatamente a privilegiare se stessi, vanno facilmente in crisi per l’insorgere degli altri e sono costretti a decifrare le loro forme del conoscere.
In questa maniera, estendendo sempre più il piano della conoscenza concettuale a scapito di quella esistenziale, finiscono per rendere conscia una parte sempre più vasta del loro inconscio.
Il che equivale ad acquisire un metodo di indagine conoscitiva libero dagli errori che i pregiudizi e la tendenziosità fatalmente generano, e quindi la possibilità di riorganizzare il proprio sapere inconscio via via che, nel momento in cui viene accettato, diviene conscio.
Se ne deduce che una delle cause del relegare nell’inconscio il sapere altrimenti conscio è la tendenziosità.
Per cui si può dire che una parte dell’inconscio è tale semplicemente perché l’individuo la rifiuta, mentre quel sapere diverrebbe immediatamente conscio se lo accettasse.
In proposito, se non uso la parola ‘rimozione’ è perché essa fa pensare a qualcosa che sparisce dalla mente.
L’individuo invece non rimuove ciò che non gli conviene – né del resto si può pensare che le consapevolezze possano sparire nel nulla – ma è solo molto strategico nell’usarlo.
Egli cioè si organizza a ‘guardare’ la consapevolezza che vuole rifuggire da punti di vista diversi, o a utilizzarla in maniera parziale, stravolgendone così il senso come più gli piace.
Naturalmente capita in continuazione che abbia convenienza a ‘dimenticare’ del tutto qualcosa, ma, anche in questo caso, non la rimuove, ma piuttosto la ‘ricopre’ di una sorta di ‘telo’ più o meno trasparente che continua a far parte del paesaggio dei suoi ricordi, e dietro il quale sa bene cosa si nasconda, dal momento che è lui stesso ad averlo steso.
Con la conseguenza che la cosa, non rimossa ma solo ‘nascosta’, continua a condizionare il suo comportamento, e anzi finisce di solito per condizionarlo ancora più fortemente, poiché l’individuo, ‘per non vedere il telo’, e magari nel timore che il ‘vento’ possa portarlo via da un momento all’altro, finisce o per non ‘circolare’ più in vaste aree della sua mente dove è custodito un sapere che invece gli occorrerebbe per vivere, o per accedervi con gli ‘occhi bendati’, oppure ancora attraverso una serie di ‘circoli viziosi’ che gli stravolgeranno l’immagine complessiva del ‘territorio’.
Vi è poi un’altra grossa parte dell’inconscio che è tale non perché l’individuo la rifugga, ma perché, a causa della sua complessità o contraddittorietà, non riesce a decodificarla; e un’altra ancora che non riesce più a ‘ripescare’, tant’è remota.
Come ad esempio i processi conoscitivi che reggono le funzioni organiche, i quali fanno parte di una sorta di ‘intelligenza interna’ pressoché impossibile da decifrare da un punto di vista concettuale.
In ogni caso, rendere conscia una parte dell’inconscio consente una grande estensione del proprio sapere e della propria capacità di vivere.
L’appropriarsi di una parte dell’inconscio può avvenire in due diversi modi legati alle tre diverse categorie di inconscio: il sapere rifiutato, il sapere complesso, e il sapere remoto: categorie ognuna partecipe della natura delle altre.
Il primo modo richiede più coraggio che capacità di capire, e consiste nell’accettare il sapere rifiutato: operazione che è difficile che qualcuno compia se non vi è costretto o non vi ha convenienza.
Il secondo, che richiede più capacità di capire e di impegnarsi che coraggio, è quello di svolgere un duro lavoro di ricerca e di decodifica rispetto all’inconscio complesso e remoto.

Categorie
Estratti Uncategorized

La sessualità

La sessualità

tratto da “La storia di Giovanni e Margherita”

Le entità viventi allo stato originario sono solo dotate di una generica ‘sensibilità’.
La sensibilità, a un maggiore livello di sviluppo, si trasforma in organo sensorio specializzato.
Lo sviluppo avviene attraverso la selezione naturale.
Quando cioè la collettività delle entità ha una comune esigenza e dunque una comune ‘volontà’, gli individui dotati di una forma più adatta all’esercizio di questa volontà vincono sugli altri e causano così l’affermarsi di un contesto caratterizzato da individui dotati della forma vincente.
Alla lunga questo processo dà luogo agli organi specializzati, la cui massima espressione è il cervello umano.
Possiamo quindi dire che il formarsi di un organo comporta ogni volta la somatizzazione del volere degli individui.
Ora, una delle esigenze fondamentali di ogni entità è quella di stabilire un regime di interrelazione intima con le altre.
Ne è derivato che, poiché la massima espressione dell’interrelazione intima è la penetrazione di un individuo nell’altro, una parte degli originari sensori si è specializzata in organi del penetrare e dell’essere penetrati, ovvero apparato sessuale maschile e femminile.
Stante poi la grande intelligenza e duttilità della natura, essa, ogni volta, ha utilizzato gli organi per la soluzione di molteplici esigenze, pur dotandoli di una maggiore attitudine verso tipi di esigenze specifiche.
In particolare, essendo gran parte delle esigenze dell’individuo riconducibili alla volontà di interrelazione, ha dotato tutti gli organi di una più o meno grande capacità di esercizio della sessualità.
Quanto però agli organi più specializzati nel penetrare e nell’essere penetrati, ferme restando le altre loro funzioni, li ha trasformati in punti focali della sensibilità degli individui, e dunque in organi ottimali per stabilire l’interrelazione.
L’individuo, pertanto, nel compimento del gesto sessuale, gode del fatto di essere nel corpo o avere nel corpo l’altro individuo, e quindi di questa forma di interrelazione profonda rispetto alla quale gli organi del penetrare e dell’essere penetrati hanno una funzione strumentale.
Naturalmente anche l’esercizio della ‘mera sessualità’(sessualità genitale) provoca, di per sé, un certo ‘piacere’, che non va sottovalutato, ma esso è più legato all’esigenza di scaricare la tensione sessuale in senso stretto, pure voluta dalla natura per garantirsi la riproduzione e per rafforzare la volontà di interrelazione, che non alla vera funzione della sessualità, che resta il consentire l’interrelazione profonda.
Tant’è che non v’è chi non sappia com’è noioso, se non opprimente, in assenza di tensioni da scaricare, l’esercizio della sessualità con persone verso le quali non si abbia volontà di interrelarsi.
La natura, in definitiva, intelligente com’è, ha strumentalizzato gli organi del penetrare e dell’essere penetrati caricandoli della tensione sessuale, atta a generare un ancor più forte desiderio di ricercarsi degli individui e ha scelto il momento del loro incontrarsi profondamente quale momento ottimale per la consegna e la ricezione del seme.
Da ciò sono nati organi a specializzazione mista, quali appunto quelli della riproduzione.
Dopodiché ha causato una sempre maggiore specializzazione dei loro organi e delle loro pulsioni, giungendo a stabilire sistemi di un’astuzia e di una laboriosità commovente, come nel caso dei pollini, che si fanno portare dal vento, o delle anguille, che attraversano gli oceani.
Gli uomini, in particolare, hanno risolto da molto tempo i loro problemi di incontro e fatte salve le difficoltà che si creano l’un l’altro, pure finalizzate alla migliore selezione si incontrano dove e quando vogliono.
Tutto ciò ha comportato uno ‘sforzo organizzativo’ e selettivo enorme, bene evidenziato dalla complessità dei nostri organismi, che, poiché in natura nulla diventa mai pacifico, causa la necessità del formarsi continuo di ulteriori ‘volontà propulsive’, cioè i nostri modi di pensare\culture\morali.
E veniamo a noi.
L’individuo moderno già da alcuni decenni, ma in qualche misura da molti millenni, ha imparato a controllare il meccanismo della riproduzione, per cui gode della sessualità anche prescindendo dalla finalità riproduttiva.
Abbiamo visto infatti che la natura, nel legare la riproduzione alla sessualità, l’ha solo strumentalizzata, scegliendo un sistema che, oltre a essere il meno doloroso, fosse il più piacevole, ottenendo di realizzare una cosa tanto complessa quanto la riproduzione attraverso un sistema tanto gradevole quanto l’esercizio della sessualità.
Osservazione questa che merita un inciso in relazione al tema del lavoro.
Gli individui, cioè, ostili come sono alla sofferenza, alla lunga vi si ribellano.
Il che significa che se si vuole che gli uomini di oggi lavorino e producano, è necessario, seguendo l’esempio spettacolare della stessa natura, individuare modi per trasformare il lavoro in gioia. Diversamente, con tutte le loro forze, vi si ribelleranno.
Ovviamente, nel mentre ciò si realizza, sarà necessario che ogni uomo continui a lavorare come può, altrimenti quella stessa sofferenza che cerca di evitare rifiutando il lavoro gli ricadrà addosso moltiplicata, attraverso il rifiuto degli altri, per non aver voluto cooperare alla loro vita.
Si faccia caso, in fondo, al fatto che la stessa natura, che pure è così abile, è riuscita finora a rendere piacevole la procreazione, ma non la gestazione, né il parto.
Nemmeno la natura, insomma, pur in tanto tempo e con tanti strumenti a disposizione, è riuscita ad attuare completamente il suo intento.
Ma torniamo alla sessualità.
La sessualità, specializzazione della sensibilità, è la prima cultura di ogni entità.
Essa, in quanto cultura\modo comune di vedere le cose, è la prima forma di linguaggio che gli uomini hanno utilizzato per trasmettersi il loro sapere, rappresentato nella fase iniziale dalle mere pulsioni originarie.
Un primo linguaggio si è poi specializzato in tantissimi altri, uno dei quali è la lingua vera e propria, perché le parole, in quanto modulabili all’infinito, sono atte a descrivere la realtà in maniera compiuta, per cui, se adoperate propriamente, sono l’unico strumento possibile per garantire i livelli complessi della comunicazione.
La sessualità però è un tipo di linguaggio sintetico attraverso il quale gli individui, anche a prescindere dalla capacità di saper adoperare propriamente le parole, riescono a comunicarsi la loro emozionalità.
L’individuo moderno utilizza sempre più articolatamente la sessualità quale strumento per riconoscere ed essere riconosciuto ai fini della migliore sopravvivenza e del migliore sviluppo.
È anche questo che ha causato il diffondersi di tante e così diverse forme di sessualità, quali l’omosessualità, bisessualità e transessualità.
Anche il sadismo e il masochismo, e persino la criminalità sessuale, hanno lo stesso valore ‘linguistico’.
L’esercitarle è anch’esso dovuto alla volontà di interrelazione, perché equivalgono a uno sfregarsi violento dei corpi allo scopo di percepire più fortemente la propria e altrui emozionalità e comunicarsela.
Va da sé che quando siano esercitate in maniere che travalichino la misura del congruo sono aberrazioni da cui dover guarire, o delitti.
Nei limiti dell’ordinario, invece, esse sono solo modi più accentuati di scatenare e comunicare la normale emozionalità.
Giunti a questo punto possiamo concludere che la sessualità ha quattro fondamentali valenze, tutte partecipi l’una della natura dell’altra.
La prima è quella legata alla sessualità come strumento per addivenire all’interrelazione profonda, ed è la più importante, poiché l’esigenza fondamentale di ogni individuo è quella di comunicare con gli altri.
La seconda è quella legata al piacere che gli organi del sesso sono comunque in grado di procurare a causa della loro forte sensibilizzazione\culturalizzazione.
La terza è quella legata all’esigenza di riprodursi.
La quarta è quella legata alla sua funzione veicolare: nel senso che gli individui usano la sessualità come strumento per proporsi agli altri e come veicolo per muoversi nel contesto.

Per approfondire scarica il volume “La storia di Giovanni e Margherita”

Categorie
Estratti Uncategorized

Il tempo, lo spazio, la materia, l’energia

Sodoma e Gomorra

tratto da “La civiltà degli onesti”

 

Sarebbe davvero interessante sapere cosa mai dovevano essere diventate Sodoma e Gomorra per scatenare in quel modo l’ira divina, visto che a noi invece Dio non fa nulla.
A meno che, al contrario, proprio nel mentre stava per versarci addosso un diluvio di pece rovente, Egli non si sia stupito a osservare per un istante – un istante che a noi sembra chissà come lungo – fino a che punto potremmo mai essere capaci di arrivare.
Un’altra possibilità è però che l’uomo, sfidando così l’onnisapienza di Dio, sia riuscito, nel mentre ne fa di tutti i colori, a simulare così bene l’onestà, da ingannare finanche Lui, almeno per il momento.
In ogni caso, a prescindere dal se sia o no riuscito ad approfittare transitoriamente della benevola distrazione o dell’infinita bontà di Dio, l’uomo occidentale, fino a qualche tempo fa, era quantomeno sempre stato conscio della sua ipocrisia.
Prova ne è, ad esempio, che se da un lato Sainte – Beuve diceva: «Non tutti i delinquenti sono moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse un delinquente», dall’altro, a San Giovanni in Fiore, mio amatissimo paese d’origine, secondo i racconti di mio nonno Salvatore, o di mio zio Giovanni, un autentico santo laico riconosciuto tale da tutto il paese, se taluno si atteggiava a onesto, o addirittura si autodefiniva tale, subito il suo interlocutore, riportandosi a un antico adagio, e dunque a una consapevolezza molto comune, popolare, lo apostrofava ironicamente dicendo, o se non lo diceva lo pensava: «Gente onesta in case vuote».
Principio questo scontato anche per Esopo, quando fa dire alla famosa volpe che l’uva, in realtà irraggiungibile, non è matura.
Favola cioè con cui Esopo simbolizza che l’individuo è così alieno dalla morale da dare talmente per scontata la congruità dell’impadronirsi dell’uva altrui, che chi non ci riesce si vergogna del suo fallimento al punto da sentire l’esigenza di schernirsi dicendola amara.
Temi che ho svolto più diffusamente nell’introduzione a un mio precedente libro (Pazzia un Corno!), e anche in vari altri documenti.
Ho scritto cioè che è deliberatamente falso che l”onestà’ sia o sia mai stata un valore, mentre è un valore la ‘disonestà’, perché solo la contrapposta ‘disonestà’ di ciascuno, ovvero l’interesse personale di ciascuno a svilupparsi innanzitutto lui stesso, ha la forza di rendere dinamici i complessi meccanismi dello sviluppo.
Salvo che questa ‘disonestà’ causa poi un’eccessiva conflittualità, sicché gli individui sentono l’esigenza di una morale e la codificano.
Una morale destinata ad affermarsi solo nella misura in cui risulterà essere più vantaggiosa della disonestà, e che verrà meno nel momento in cui verrà meno il controllo.
Tesi dalle quali non vorrei si deducesse un invito alla disonestà convenzionale, poiché si tratta invece di un auspicio a che nasca infine una concezione dinamica e realistica di onestà, ovvero di onestà come necessità sociale, e non come valore astratto per conquistarsi il lontano paradiso, .. affinché nel mentre gli uomini, sulla terra, possano continuare a farsi gli affari loro: una concezione che appunto ha sempre e solo prodotto ipocrisia, opportunismo e disonestà intellettuale.
In tutto ciò ai giorni nostri è però accaduto qualcosa di nuovo.
Gli uomini, da ultimo, hanno perso il senso dell’autocritica e del ridicolo al punto che gli sbandieratori della loro qualità di ‘onesti’ sono addirittura diventati una maggioranza trasversale presente in tutti i partiti, sindacati, movimenti, associazioni eccetera.
Una qualità di ‘onesti’ rappresentata nelle sedi giudiziarie da un certo numero di magistrati anch’essi uno più ‘onesto’ dell’altro, i quali hanno come fonte delle loro posizioni ‘giuridiche’ i loro personali interessi nell’ambito degli ‘orientamenti’ della fazione a cui appartengono.
Con il risultato che si assiste allo spettacolo di una serie di imputati ‘eccellenti’, i quali, con ogni più subdolo espediente mediatico, vengono univocamente dati per assolutamente innocenti e perseguitati da una parte, nonché colpevoli di tutto e mai abbastanza castigati dall’altra.
Ciò però non nel senso che le due parti considerino innocenti i propri campioni, ma nel senso che l’unica cosa su cui concordano è l’irrilevanza dell’avere quei campioni commesso o no i reati che gli si attribuiscono, dato che tutti sanno bene di essere parti di una società intimamente depravata, in cui, nell’ambito della violenta e tragicomica finzione globale, conta solo che le accuse siano utili per sconfiggere l’avversario.
Una dinamica orrenda e faticosissima, ma che causa un progressivo logoramento degli strati di moralismo di cui la società grottescamente si imbelletta, sicché tra non molto sarà nuda, e da quel momento ne inizierà la vera trasformazione.
Temi che, insieme ad altri, ho già variamente svolto in questi ultimi anni in numerosi documenti, di cui pubblicherò fra breve una selezione nel volume La fase di Saul.
Cose che provano anche che l’odierna civiltà degli ‘onesti’, oltre ad essere una ‘civiltà’ dell’ipocrisia, dell’opportunismo e della disonestà intellettuale, ha abdicato all’intelligenza, e quindi è pure una ‘civiltà’ degli stupidi.
Che fare? Occorre avere pazienza e lavorare affinché la società recuperi la sua millenaria intelligenza e questa maggioranza perniciosissima di nuovi ‘onesti’ si ravveda.
Nel mentre però bisogna stare attenti e difendersi, se occorre con veemenza, perché la solidarietà, la tolleranza, la giustizia, l’altruismo eccetera sono fondati sulla difficile capacità di interpretare le esigenze degli altri, mentre gli ‘onesti’, in quanto stupidi, sono solo in grado di vedere e di seguire il filo rosso dei loro interessi immediati, e questo solo se possono agire senza rischiare di rimetterci nulla in proprio, giacché generalmente, oltre a essere vili e capaci di tutto, sono anche micragnosi.

Categorie
Estratti Uncategorized

Il tempo, lo spazio, la materia, l’energia

Il tempo, lo spazio, la materia, l’energia

tratto da “La storia di Giovanni e Margherita”

Circa cosa è il tempo

 

La realtà muta continuamente la sua forma.
Questi mutamenti di forma della realtà non sono tutti tali che gli uomini li possano percepire.
Ad esempio, la realtà intorno a noi muta di forma perché gli animali si muovono, o le cose leggere vengono spostate dal vento, o perché il sole o la luna o le stelle si spostano nel cielo; e tutto ciò può essere approssimativamente percepito.
Non possiamo però percepire il muoversi delle entità minime all’interno degli oggetti, così come non possiamo percepire i mutamenti che avvengono fuori dalla portata della nostra vista, o su di un continente lontano.
La realtà inoltre assume periodicamente forme che sembrano ripetersi identiche.
Ad esempio, ogni giorno spunta il sole, e la realtà, da questo punto di vista, riassume la stessa forma del giorno prima.
Nel mentre però, durante ogni giorno che si ripete, avvengono miriadi di mutamenti, alcuni dei quali ricorrono innumerevoli volte, come le onde del mare, e altri che hanno una ciclicità più lunga, come la crescita delle piante.
Gli uomini e le altre entità viventi hanno dovuto pertanto ‘convenire’ una forma del conoscere\cultura che consentisse di rapportarsi correttamente fra loro e con questi continui e complessi mutamenti della realtà.
Questa forma del conoscere, modo di vedere, di percepire mentalmente, di pensare, la realtà, è il concetto di tempo.
Il tempo, cioè, è un codice\cultura per individuare le varie forme che la realtà assume ‘istante per istante’.
Ovvero, non esiste alcuna entità autonoma tempo, ma esiste solo una cultura del tempo come convenzione fra gli uomini allo scopo di classificare le innumerevoli forme della realtà che si succedono.
La realtà, in quanto composta unicamente di entità minime in movimento continuo, muta continuamente nella forma, ma giammai nella sostanza.
Le entità individuali minime, gli astri, le persone, si organizzano, si modificano, si riproducono e si decompongono, causando con il loro ‘vivere’ eterno i continui mutamenti di forma della realtà.
Gli uomini allora hanno classificato le varie forme che la realtà assume continuamente a grandissima velocità individuandole con i vari ‘istanti’ del tempo.
Ogni attimo di quel che noi definiamo tempo è cioè un numero di codice che attribuiamo a una fase di sviluppo della realtà, ovvero a una certa forma della realtà.
Ad esempio, se diciamo: 1 gennaio 1800, ore 13, con questo ‘numero di codice’ abbiamo inteso identificare la forma che la realtà aveva in quella fase dello sviluppo.
Ne deriva che quello che noi definiamo scorrere del tempo non è che il succedersi delle forme infinite della realtà.
La forma del conoscere\cultura dello ‘scorrere del tempo’ corre nella stessa ‘direzione’ dello ‘scorrere della realtà’: la direzione dello sviluppo.
La realtà infatti ‘va avanti’, nel senso che si sviluppa ricercando forme aggregative sempre più omogenee.
Il concetto di tempo è uno dei primi segni linguistici\codici di interrelazione che l’uomo abbia istituito, perché l’esigenza di avere un modo comune di individuare e classificare le forme della realtà che si succedono è ancestrale.
Per poterlo ‘visualizzare’ è utile un esempio.
Supponiamo di farci filmare per ‘un’ora’ di seguito nel mentre ci muoviamo fra le cose della nostra quotidianità.
Supponiamo poi di dividere il film ottenuto in un numero molto alto di fotogrammi, pari ad esempio a mille fotogrammi al secondo.
Ebbene, guardando i singoli fotogrammi in successione ci renderemo conto che l’unica cosa che ‘scorre’ nelle immagini sono appunto le forme della realtà, che l’uomo ha qualificato con i vari ‘istanti del tempo’, commettendo poi l’errore di confondere quel mero codice con un qualcosa di esistente di per se stesso.
Ma supponiamo ora di volere invitare un nostro amico a guardare uno dei fotogrammi ottenuti.
Avremo due possibilità.
La prima sarà descrivergli il fotogramma accuratamente affinché, dalla descrizione, lo possa individuare.
Questo primo metodo sarà molto laborioso e per nulla attendibile, poiché il veloce succedersi dei fotogrammi avrà fissato mutamenti della realtà talmente modesti che il nostro occhio non potrà percepirli.
La seconda sarà numerare i fotogrammi e indicare al nostro amico il numero di quello che vogliamo che veda.
Ebbene, nel numerare i fotogrammi non abbiamo fatto altro che quello che fecero gli uomini quando inventarono il tempo per codificare le innumerevoli forme della realtà che si susseguono.
Anche loro cioè, avviliti dalla difficoltà di descrivere o di ricordare le varie forme della realtà e di rapportarle fra di loro per quello che a loro serviva, pensarono bene di codificarle in secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi e anni.
Definirono poi eternità il succedersi infinito delle forme della realtà, passato le forme che ha avuto e non ha più, presente le forme che ha nel mentre viviamo, e futuro le forme che avrà.
Il presente dunque è tutto ciò in cui il passato si è modificato e il futuro si modificherà.
Da una diversa angolazione il codice\linguaggio tempo è però ben altro.
Un qualunque vegetale, ad esempio, ha raggiunto la sua forma durante milioni di anni e attraverso un’evoluzione dovuta a una continua mediazione nel rapporto di forza con le forme della realtà che si succedono.
La forma che ha assunto è quindi il risultato delle ‘esperienze’ che ha fatto e delle ‘consapevolezze’ che ha via via somatizzato nel suo eterno dialogo con tutte le altre entità.
Di talché una semplice foglia ‘saprà’ come ‘leggere’ il codice del tempo, e quando dover nascere, morire, o cambiare.
Una ‘consapevolezza’ somatizzata, si osservi, dovuta al modo in cui è strutturata, e che ci conduce al tema del ‘linguaggio’ come parte integrante della struttura della realtà.
Pur di fronte a tali e tante cose, e ferma restando la necessità di conoscere il passato e di rapportarsi correttamente al futuro, all’incontenibile e all’impercettibile, per ogni uomo ciò che prevale su tutto è la sua quotidianità e la sua vita, e la quotidianità e la vita del suo contesto familiare, sociale e umano.

L’entità individuale minima.
Il vuoto.

Ogni entità individuale è costituita da un numero infinito di entità individuali e contesti di entità individuali minori ed è parte di un numero infinito di entità individuali e contesti di entità individuali maggiori, tutti in movimento organizzato in ogni loro parte.
Ciò che è dato osservare conferma che la realtà si muove, a qualunque stadio, secondo le stesse pulsioni.
Viaggiando verso l’infinitamente piccolo le diversità fra le entità sono sempre meno percepibili e meno rilevanti dallo stadio in cui ci si trovi, finché, nell’irraggiungibile infinitamente piccolo, le entità, benché diverse, risultano uguali.
Da una certa grandezza in poi le entità saranno percepibili solo in base al loro movimento, ovvero alla loro energia, che, a stadi superiori, definiamo forza, intelligenza, pensiero, spirito, vita.
Le entità minime, secondo i diversi modi in cui si aggregano, daranno luogo alle varie specie di materia e quindi di entità, quali oggetti, animali, persone ecc.
Anche il ‘vuoto’, però, non è che materia nella quale le entità minime si sono aggregate e si muovono in un certo modo.
Il concetto di ‘vuoto’, che in realtà è un ‘vuoto’ di cose percepibili, e quindi un vuoto relativo, è stato erroneamente acquisito dall’uomo quale vuoto assoluto in virtù di un processo di introitazione culturale che dura da quando dura il mondo.
Il concetto di vuoto così introitato ha prodotto un tipo di strutturazione delle forme del conoscere della mente umana che rende difficile la reale comprensione, non solo del fatto che non esiste il vuoto, ma soprattutto del fatto che non esiste alcun corretto concetto di vuoto, perché non può esistere un concetto che definisca correttamente una cosa inesistente.
A riguardo, sebbene ogni esempio costituisca una schematizzazione, mentre la realtà è molteplice, per cui gli esempi producono spesso più problemi di comprensione di quanti ne risolvano, devo tuttavia proporne uno.
Ipotizziamo cento lastre di metallo quadrate di lato un chilometro e di spessore un millimetro.
Ebbene, se le disponessimo, a mezzogiorno, parallelamente le une alle altre, a distanza di alcuni metri l’una dall’altra, e perpendicolarmente al piano della terra, un osservatore che guardasse in quella direzione, non vedrebbe altro che il sole.
Se invece le componessimo in un’unica lastra e la disponessimo parallelamente al piano della terra ne risulterebbe uno spettacolo e una situazione tremendi.
Ognuna poi delle altre maniere in cui le disponessimo darebbe luogo ad altrettanti spettacoli e situazioni profondamente diversi.
E fin qui siamo sul piano dei concetti compatibili con il modo in cui sono fatte le nostre forme della conoscenza.
E’ invece difficile comprendere che tutto questo è vero anche per ciò che, in virtù della qualità delle ‘misurazioni’ che i nostri organi del senso ci consentono, percepiamo come cielo o ‘vuoto’.
Un vuoto che, d’altra parte, muta continuamente di aspetto anche solo in base alle tipologie di luce da cui è attraversato, alle temperature, ai livelli di umidità ecc., e che, nel momento in cui su esso intervenissero altre cause, diverrebbe chissà cosa.

Categorie
Estratti Uncategorized

Cristo Uomo

Cristo uomo

tratto da “da Ar a Sir”

 

Avevo sempre ritenuto che la mancanza di elementi di prova sull’esistenza di Cristo, considerata l’epoca storica alla quale lo si attribuisce, dimostrasse a contrario che non è mai esistito, ma in seguito alla rilettura della Bibbia, che non leggevo da oltre venti anni, mi sono ricreduto: quell’uomo esistette, e la sua assenza dalle cronache è dovuta a una motivazione singolare.
Tale fu cioè la sua grandezza intellettuale, e dunque il suo coefficiente di diversità, che la mente collettiva ebraica decretò su di lui un silenzio che, in vita, egli non riuscì mai a vincere, e che durò fino a quando, solo dopo la sua morte, il mondo ebraico non ebbe modificato la sua immagine fino a renderla ‘ammissibile’.
Se così non fosse non si saprebbe a chi imputare il fatto che nel Nuovo Testamento (la parte della Bibbia successiva a Cristo), o almeno in alcune parti di esso (il discorso della montagna), c’è l’espressione di un livello sapienziale di cui la cultura ebraica non era mai stata capace fino a quel momento e non sarebbe mai più stata capace neanche successivamente, quando cioè, solo poche decine di anni dopo, le parole di Cristo, purtroppo mai scritte, si persero nel grande fiume degli eventi.
Tanta tuttavia era stata la loro forza che furono capaci di operare una profonda trasformazione della cultura\religione ebraica.
Ovviamente, considerata la mia irreligiosità, è chiaro che il Cristo al quale mi riferisco non poteva che essere privo di attributi divini: un mortale dunque, del quale ritengo di aver decifrato la storia personale.
Possedeva una qualità del sapere fondata su una straordinaria capacità di intuire.
Il sapere cioè di chi, infrante le barriere delle pseudoculture funzionali al rapporto di forza complessivo, riconosce la verità traendola dalle alchimie della conoscenza esistenziale profonda.
Le sue parole, traboccanti di quella straordinaria consapevolezza, disattivano e vanificano le argomentazioni dei ‘saggi’, numerosi in tutte le epoche più che le foglie degli alberi.
Sfortunatamente questo essere eccezionale, dotato di un sistema intellettuale profondo come l’oceano, non conosceva la scrittura né, incorrendo in un errore coerente a una mente e a un livello di esperienza storica come la sua, volle conoscerla, forse perché era fondatamente certo, di quella certezza di chi ha il dominio dei pensieri degli altri, che le sue parole sarebbero bastate a cambiare il mondo!
Quello che invece non riuscì a vedere quest’uomo tanto morale da aver saputo spendere un patrimonio mentale incommensurabile come quello contenuto nell’espressione «chi è senza peccato scagli la prima pietra» per la salvezza di un’adultera, la cui vita valeva in quell’epoca meno di quella di una farfalla, ebbene, quello che invece non riuscì a vedere, perché in nessun modo volle accettarla, fu l’ingenerosità degli altri; compresi coloro che lo attorniavano in qualità di discepoli.
E non perché consentirono o contribuirono a che fosse ucciso, perché a questo non c’era rimedio – giacché un uomo portatore di una tale diversità non aveva strumenti, a quello stadio della civiltà, per potersi salvare dalla recriminazione pubblica e privata – ma perché non capì, per l’eccesso di quella stessa generosità che del resto era la sua dote fondamentale, che nessuno avrebbe avuto viceversa la generosità di conservare e riportare le sue parole per come lui le aveva pronunciate, ma ognuno le avrebbe ‘adattate’ in funzione della visione che gli sarebbe convenuto averne in base alle sue personali esigenze; con il risultato di disperderle nella preesistente tradizione ebraica.
Nessuno in sostanza ebbe la generosità – ma chi ne fosse stato capace sarebbe stato un ulteriore ‘Cristo’ – di rinunziare a sé e dedicarsi alla conservazione di quello che riuscì a dire prima che si affrettassero a sopprimerlo per la stessa misera invidia che affligge da sempre la vita del genere umano, e che ha una presenza avvilente nella cultura ebraico\cristiana e nelle culture di massa che da essa sono sorte.
In ogni modo, tale fu la forza di quelle parole che, tra le righe del Vangelo, lasciarono ugualmente le loro tracce in alcune scintille sapienziali che sono da allora la ragione del cristianesimo.
Ma torniamo all’adulterio.
Nel primo dei Vangeli, il Vangelo secondo Matteo, c’è un episodio che riguarda Giuseppe e Maria.
Giuseppe, cioè, scopre che Maria, prima che «abitassero insieme», è incinta, e poiché, dice Matteo, «Egli era giusto e non voleva esporla all’infamia, pensò di ripudiarla in segreto».
A quel punto intervenne però un angelo del Signore, che spiegò al generoso Giuseppe che la cosa era opera dello Spirito Santo, e tutto andò così per il meglio: Gesù, nei tempi e nelle forme previste dalla natura, nacque, Giuseppe ne fu felice, e da quel momento nella cultura dei simpatici napoletani, gente che per una battuta non ha paura neanche di rischiare le fiamme dell’Inferno, nacque l’espressione secondo la quale, quando gli autori delle cose non rientrano fra quelli di cui è dato sapere con mezzi terreni, è opportuno archiviare il caso fra quelli accaduti «in virtù dello Spirito Santo».
Se insomma si vuol tener conto anche del punto di vista degli atei, che non possono in quanto tali credere né allo Spirito Santo né ai miracoli (oltretutto il dogmatismo è sempre meno funzionale al contratto sociale moderno), Maria era incinta, e non di Giuseppe.
Di talché, con quella struggente, commovente capacità degli uomini come delle donne, di ingannare innanzitutto se stessi prima di disporsi a ingannare gli altri, diede luogo nella mente e negli occhi suoi e del buon Giuseppe al miracolo dell’annunciazione da parte dell’Arcangelo Gabriele.
Solo così si spiega l’innata determinazione, la certezza, con la quale quel neonato urlante, senza indugio, ..nella sua qualità di figlio di Dio in persona, si predispose a liberare il mondo dai suoi peccati, ..suscitando il mito della sua resurrezione per continuare a crescere nei secoli dei secoli nonostante duemila anni di aberrazioni dei suoi seguaci, discendenti del resto di quei suoi contemporanei che, da vivo, per effetto dell’invidia feroce di quell’intollerabile diversità, lo avevano circondato di quel muro di silenzio sublime, benché per altri versi atroce e incredibile per l’assurda univocità di tante persone che pure insieme sapevano, affinché non trapelasse nulla che potesse salvarlo dal lago di nera solitudine in cui tuttavia riuscì ad accettare di morire sorridendo della tenerezza di sapere che il silenzio e l’ostilità degli altri non erano in fondo che il segno del loro riconoscimento e affetto, e che stava contribuendo a far sì che, chissà quanto tempo dopo, stimolati da qualcun altro più organizzato di lui nel non farsi scannare, quei mentecatti urlanti ai piedi della croce avrebbero finalmente trovato dentro di loro quell’atomo di coraggio e di generosità dal quale era iniziato il suo straordinario viaggio verso la conoscenza.
Cristo infatti non si è mai proclamato figlio di Dio, perché era ateo, e l’affermazione della sua divinità fu solo un modo di negarlo in quanto uomo.
Il mondo ebraico, così come il successivo, nascente mondo cristiano, mistificò cioè il suo messaggio per relegarlo, in quanto Dio, nella metafisica, sia per odio verso la sua stupenda intelligenza, e sia per soffocare la grande potenzialità di cambiamento del suo vero messaggio che, se correttamente divulgato, avrebbe prodotto un mutamento qualitativo della cultura dell’uomo che invece non c’è stato.