Dante Alighieri e la cultura italiana
tratto da “da Ar a Sir “
La cultura latina, dunque, fu pagana, mediata però dal grande contributo della cultura di massa ebraica.
Uno dei suoi elementi fondamentali fu l’intuizione del concetto di humanitas, perché i romani furono i primi a formulare il concetto di genere umano, umanità, a prescindere dalla classe o dalla nazione, anche se, data la lentezza degli uomini nel realizzare le buone intenzioni, ciò non impedì loro né di praticare la schiavitù, del resto vigente fino a ieri, né di dare forma all’ideologia del provincialismo, nella quale relegarono tutto il mondo conquistato.
In ogni modo, quel concetto di humanitas fu alla base del loro impero e – nonostante certe pur molto vantate civiltà moderne non l’abbiano ancora appreso – rappresenta il minimo indispensabile per il corretto svolgimento della politica internazionale.
Roma comunque crebbe, si sviluppò, e poi pure cominciò a decadere, nel mentre scorreva tumultuoso un fiume di eventi tanto ampi, numerosi e complessi da non poter essere nemmeno accennati in una trattazione come questa, che vuole essere sintetica il più possibile, scritta per di più in tre mesi, dopo soltanto due di ricerche.
In mille anni, mille popoli, mille tendenze, mille filosofie interagirono senza tregua.
Dopo tredici secoli da Virgilio tutto questo divenne cultura italiana: il mondo degli stupendi valori pagani, sublimato dalla sofisticatezza tendenziosa del cristianesimo d’oriente e d’occidente, divenne cultura borghese.
L’uomo che decodificò e poi ricodificò tutto ciò, riformulandone i valori, fu, come già detto, Dante, il quale, con il magnifico stratagemma del percorrere i gironi dell’inferno, del purgatorio e del paradiso, ripercorse in realtà le tappe fondamentali della morale vigente proponendo nel contempo la successiva.
Nel frattempo, dall’alto dei cieli trinitari, l’astuta Madonna precristiana, l’originario simbolo paganeggiante della maternità, ora divenuta sapientissima e filosofissima, rise di soddisfazione e divin gaudio: dopo gli autori di Ghilgamesh, Omero, Eschilo e Virgilio, quell’uomo era, in ordine temporale, il quinto.
Con gli autori di Ghilgamesh, Omero ed Eschilo aveva perso, con Virgilio s’era accordata, ma con Dante aveva trionfato.
Dante, di fronte alla crisi ormai irreversibile dei valori del paganesimo e della prima fase del cristianesimo, che nella selva più fatiscente che terribile della sua mezza età ravvisò nella lonza, nella lupa e nel leone, simbolizzanti i vizi capitali, lanciò gli «alti lai» ben sapendo che il povero Virgilio, che certo non avrebbe voluto spingere il suo molto improbabile cristianesimo fino a quel punto, ma non aveva più la forza di insorgere di fronte all’ormai inarginabile potenza delle concezioni della Chiesa, sarebbe accorso e lo avrebbe guidato e difeso in quella vera e propria finzione scenica, ovviamente sublime, ma non per questo meno offensiva.
E basti osservare che Dante arriva al punto – dopo essersi fatto accompagnare da Virgilio per tutto l’inferno e il purgatorio – di lasciarlo alle porte del paradiso al quale, in quanto pagano, gli nega l’accesso.
Ma Virgilio non è il solo al quale Dante rechi questa offesa.
Insieme a lui, nel limbo, colloca finanche Omero, Aristotele, Platone, Democrito, Diogene e poi ancora Orazio, Ovidio, Lucano e sostanzialmente tutti i grandi uomini del passato eccetto, è chiaro, i personaggi dell’Antico Testamento, che invece, senza andare troppo per il sottile, infila in blocco in paradiso.
Tale è insomma l’ingenerosità di Dante, ma si direbbe meglio del cristianesimo, che, neppure dopo che la guerra fra paganesimo e cristianesimo era ormai finita da secoli, viene loro perdonato di essere stati pagani, pur essendo stati, quando erano uomini in carne e ossa, i veri motori del mondo e della cultura da cui il cristianesimo era nato.
Ma l’episodio in cui si riconosce meglio la chiusura di Dante e del cristianesimo verso la cultura pagana è l’incontro con Ulisse.
Ulisse, l’uomo animato dalla sete inarrestabile di una conoscenza senza limiti sì, ma pure accorata, profondamente umana, struggente, conscia delle necessità della vita, non intransigente, pronta agli slanci benché sempre accorta per sé e per gli altri; l’uomo che con lo sguardo consapevole e il volto illuminato dalla luminescenza delle statue greche aveva navigato intrepido nei mari dell’inconoscibile; il marito di Penelope, conscia del trascorrere del tempo, ma indistruttibile nella sua capacità di attendere; il padre di Telemaco, capace dopo venti anni di avvertire dentro di sé le avvisaglie del ritorno di un padre conosciuto solo nel canto dei poeti e di vincere l’ostilità di cento principi per cercarlo e affiancarlo senza un attimo di titubanza contro coloro che in tanto tempo si erano inutilmente adoperati a ingannarlo; insomma, quest’uomo stupendo, che è certo il più bello, il più compiuto, il più umano, il più sapiente, il più intelligentemente ardimentoso degli eroi di tutte le letterature, l’uomo capace di non rinunciare mai alla volontà di andare avanti e nello stesso tempo di non cancellare mai dal suo cuore la volontà di tornare ai suoi affetti lontani, ebbene, un uomo tale Dante lo pone all’inferno, tra i consiglieri di frode.
Ma la verità è tutt’altra.
Dante conosce bene la grandezza di Ulisse, che è poi sinonimo di Omero, perché è in lui che Omero si identifica, e sa anche che egli, in quanto interprete purissimo della concezione naturalistico\normale, è immensamente più grande di lui, e che il suo tuttavia enorme castello dottrinario, a Ulisse, abituato a cercare direttamente le essenze delle cose, sarebbe sembrato un deposito di cianfrusaglie.
Dante infatti, nonostante confessi l’impulso irresistibile di parlargli, non osa rivolgergli la parola, ma lo fa interrogare da Virgilio, dal quale fa dire, attribuendogli una superbia inesistente nel carattere di Ulisse, che a lui non risponderebbe perché i Greci consideravano gli altri popoli barbari, mentre parlerebbe con Virgilio per averlo quest’ultimo esaltato nell’Eneide (dunque è consapevole che lo sta oltraggiando nella Divina Commedia).
Ma la preoccupazione di Dante è manifestamente insincera, perché, come testimoniano l’Iliade e l’Odissea, Ulisse e la cultura greca erano alieni da ogni tipo di chiusure e generosamente aperti verso ogni interlocutore.
Del resto Dante colloca sì Ulisse nell’inferno e commette l’ignominia di immiserirlo in quanto ‘consigliere di frode’ (in realtà Ulisse è lui stesso fra gli eroi che rischiano la vita nascosti nel cavallo di legno, e il suo è un gesto di guerra), ma non osa poi trattarlo come un vero dannato.
Tant’è che dopo averlo rappresentato in forma di fiamma che arde (il che, considerato il luogo, equivale a un’allusione ambiguissima alla sua intelligenza), ce lo mostra, non solo integro nella sua dignità, ma anzi altero di un’alterigia peraltro assente nel suo carattere mitologico.
Perché mi sono tanto dilungato su questo episodio dell’inferno dantesco? Perché null’altro può spiegarci meglio il rapporto di odio\amore fra la cultura pagana e le involuzioni ancora irrisolte della cultura cristiana.
Una delle discrasie fondamentali del cristianesimo è infatti proprio nel tipo di paradiso prospettato, di cui Dante, che del cristianesimo è un profondo conoscitore, formula, dopo tredici secoli da Cristo, il vero modello.
L’ebraismo e il cristianesimo, infatti, per negare il valore di tutto ciò che potesse minarli, finiscono per affermare un tipo di paradiso in cui la beatitudine è costituita da cose che non coincidono in alcun modo con nessuna delle forme di benessere, e tanto meno di godimento, tipiche della società umana, la quale è fisiologicamente e psicologicamente impedita a poter considerare beatitudine il fatto di trascorrere l’eternità a essere luminescenti godendosi nel mentre lo spettacolo della luminescenza di Dio.
Con il risultato che ne è derivata una Chiesa molto più fondata sulla paura dell’inferno che sul desiderio del paradiso.
Un paradiso che il paganesimo non disegna affatto, perché il paganesimo, in virtù del suo naturalismo, non conosce alternative alla vita terrena, unico paradiso dell’uomo, sicché descrive il regno dei morti, l’Ade, come un luogo sotterraneo comunque tragico appunto per l’assenza della vita.
D’altra parte una diversa concezione di paradiso avrebbe causato una diversa concezione della vita, e questo avrebbe posto la Chiesa in crisi.
Perché mai, infatti, se fosse stato prospettato un modello desiderabile di vita paradisiaca, non si sarebbe dovuto cominciare a praticarlo già sulla terra?
E come dunque avrebbe la Chiesa potuto garantirsi nei secoli l’immobilismo culturale e politico ai fini della conservazione del potere?
Ciò che piuttosto potrebbe sorprendere è che Dante si sia potuto prestare a questo obbrobrio, ma la verità è che Dante era lui stesso visceralmente bigotto e ipocrita.
Quanto al suo genio poetico, serva da lezione: i poeti sono i veri padroni del mondo, perché con la bellezza del verso sono in grado di fare passare per buona qualunque affermazione.
Ma, detto di Dante tutto il male possibile, vediamo ora, da un punto di vista diverso, l’enorme impulso positivo che diede alla cultura!
La simbologia della selva oscura popolata dalle tre orribili fiere, l’annuncio del veltro (che è lui stesso), l’omaggio ai valori fondamentali del classicismo pagano rappresentato da Virgilio – dal quale Dante si fa tuttavia accompagnare quale suo maestro e autore, benché poi lo ripaghi così male – hanno anche, e direi anzi fondamentalmente, valori e valenze diverse da quelle sopra descritte.
Il XIII e XIV secolo, e Dante in particolare, chiudono la cultura classica, e danno inizio a una nuova fase.
Dopo di lui, e proprio sulla base ideologica e culturale rappresentata dalla Divina Commedia, ci saranno quattro, cinquecento anni in cui la cultura, in tutti i campi, per quanto avvilita dalla tendenziosità implicita nel cristianesimo, rifulgerà.
Intanto, nel cuore dei protagonisti di quella divina commedia che la vita moderna andava ogni giorno di più diventando, gli eroi greci, solo apparentemente rallegrati per quella superficiale lucidatura, ma in realtà avviliti per quell’ennesima beffa, rinviarono la loro feroce vendetta, ormai ridotta a un’accesa volontà di confrontarsi ragionevolmente, alla prossima occasione.
Ar, Achille, e gli altri di indole più guerriera, che in realtà saranno rivalutati dall’Umanesimo e dal Rinascimento, piansero amaramente e credettero che quella volta fosse realmente l’inizio della definitiva fine.
Ulisse, l’ormai pio Enea, e gli altri più temperati nelle virtù ‘femminili’ della morigeratezza e dell’attesa, riuscirono a rincuorarli a stento.
In questa nuova situazione e sulla base di questi nuovi valori ricominciò la vita.
Più tardi, a bordo delle navi di Colombo, Vespucci, Magellano, Cook e tanti altri, dopo essersi consolidati nel vecchio continente, sarebbero debordati in tutto il mondo, ivi compresa l’aristocratica Asia, i cui eroi antichissimi e nobilissimi – di fronte ad un cristianesimo peraltro ormai tanto sviluppato da avere interesse più alla colonizzazione che alla vera conversione degli altri popoli – riuscirono tutt’al più a ottenere la conservazione dei simulacri di quello che erano stati, ma nulla di più potettero contro le ormai strapotenti divinità cristiane, da quel momento sorrette dal genio di Dante.
I secoli successivi, tutti all’impronta del razional-spiritualismo, padre diretto dell’attuale pseudo-razional-consumismo ‘umanistico’, videro il verificarsi di eventi sempre più grandi e caratterizzati dalla partecipazione di fasce sociali sempre più vaste.
Dante, con la sua opera scritta in volgare appunto in omaggio alle masse, se da un lato era stato molto ambiguo verso la cultura aristocratico-pagana, i cui valori comunque considerava irrinunciabili e superiori, dall’altro fu senz’altro il massimo e il più meritevole artefice della cultura di massa, e dunque dell’avvento della democrazia.
Quanto poi all’apparente contraddittorietà di questi fenomeni, credo sia chiaro che non di contraddittorietà si tratta, ma di quel polimorfismo che, per il suo equilibrio e per la sua capacità di trarre sintesi armoniche dalla molteplicità degli aspetti della realtà, rese grande la cultura italiana in contrapposizione a tutte quelle forme di manicheismo che sono il presupposto dello schematismo, dell’incomprensione e dell’intolleranza in altre culture.
Sarà proprio questo, anzi, a favorire il sempre maggiore allargamento sociale dei fenomeni culturali e a causare che da un certo momento in poi essi diventino di massa.
Quella massa cioè, sia pure in una concezione non certo così estensiva come la intendiamo noi oggi, si riapproprierà dei valori della cultura classica e, mediandoli con le sue nuove esperienze, li esprimerà in tutti i campi dello scibile.
Di lì a poco, la miccia che Dante aveva innescato con la sua opera ingente, attraverso un meccanismo di inarginabili reazioni a catena, farà esplodere nel cielo del firmamento italiano le spaventose tensioni che migliaia di anni di storia vi avevano accumulato e le trasformerà, nella letteratura e nell’arte, nei massimi fenomeni culturali che il mondo abbia avuto, e che si sarebbero poi espressi attraverso uomini che nessuna altra cultura riuscirà mai a generare, e in Italia si succederanno invece innumerevoli per secoli.
I grandi musei del mondo, compreso il Louvre, nel quale ho trascorso una settimana nel dicembre scorso per raccogliere materiale per questo libro, sono grandi soprattutto in quanto zeppi di arte italiana, oltre che greca, egiziana, assira, babilonese e così via; e finanche in relazione all’impressionismo ci sono a mio avviso nello stesso Louvre decine di quadri italiani, anteriori a volte di secoli, la cui cromaticità appunto impressionistica vale da sola tutte le opere di quel pur magnifico movimento.
Senza contare i musei di Firenze e d’Italia: in realtà il mondo moderno, nel mentre non fa altro che dirlo, non sa che La Nascita di Venere, La Primavera, La Gioconda o La Pietà (Louvre e Vaticano) contengono quel momento culturale dal quale appunto – sia dato a ognuno il suo e absit iniuria verbis: con l’aiuto dell’utensileria predisposta dai paesi più tecnologicamente avanzati – sta per sgorgare un’altra buona parte della storia del nuovo universo!
Ma ritorniamo alla tendenziosità.
Tendenziosità o non tendenziosità, la spinta inarginabile che da sempre muove la vita verso l’alto, verso lo sviluppo, riuscirà a far sì che gli uomini daranno al loro operare tendenzioso le forme dell’arte più raffinata ed evoluta, e a trasformare sovente il loro dolore e la loro miseria nella più splendente ‘umanità’.
Ciò che invece, dopo duemila anni, non è ancora riapparso è quella ‘normalità’ che aveva caratterizzato le concezioni e l’arte dei pagani in generale e dei Greci in particolare.
Finanche La Pietà, pur straordinario esempio di arte in tanto dogmatismo e tendenziosità (quando mai gli uomini o le madri o, se si vuole, gli dèi, hanno sofferto in quelle pose?) altro non è che il prototipo e la base ideologica di quella che sarà poi la cosiddetta arte hollywoodiana.
Quanto a La Gioconda, il suo sorriso, enigmatico appunto, sarà proprio la formalizzazione in arte della tendenziosità di cui sto parlando.
La tendenziosità de La Gioconda, la cui profondità semiologica ha alle spalle questi duemila anni di storia, ha come sua principale valenza la malizia.
La Gioconda, come tutti i maliziosi, penserà di essere il sale della terra.
Fidia, guardandola, difficilmente, per la stizza, sarebbe riuscito a trattenersi dal pensare per un istante che in fondo Ella non avrebbe mai capito di non essere niente altro che maliziosa.
Leonardo, infatti, nel dipingerla, riuscirà a immortalare sul volto di un essere umano la massima espressione dell’artificiosa consapevolezza alla quale una mente umana può giungere una volta che ha perso l’originaria ‘normalità’.
Non fu però Leonardo a inventare quel volto di donna.
Egli lo copiò da un’immagine riverberata dagli scritti di Dante: quella donna è l’ambigua Madonna che traspare tra le righe del suo paradiso di alienati luminescenti.