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La cultura e la civiltà dei Greci

La cultura e la civiltà dei Greci

tratto da “da Ar a Sir”

 

Da sempre il basso mediterraneo era il luogo di continue visitazioni di popoli di ogni provenienza.
Due, fra essi, erano le tendenze dominanti.
Una – predisposta a una certa democraticità, benché pur sempre all’interno della concezione aristocratico\pagana – quella rivolta alle religioni di terra, tipica delle aree più fertili, come quelle Mediterranee; e l’altra, quella rivolta aristocraticamente al cielo, tipica invece delle popolazioni provenienti da terre meno generose, più dedite pertanto alla caccia, alla razzia, o al limite alla pastorizia: quelle provenienti dal nord dell’Europa e dell’Asia.
Tendenze che assumevano connotazioni peculiari secondo l’esperienza storica, la provenienza e le vicissitudini di ogni singolo popolo.
Le felici terre mediterranee e il Mediterraneo stesso fecero germogliare i frutti migliori di ciascuna cultura in una sintesi delle loro più raffinate essenze.
Fu così che nacque la cultura greca.
In effetti già altrove, e da tempo, erano nate culture magari più composite, ma la cultura greca fu caratterizzata da un livello di compiutezza ed equilibrio tali da renderla idonea a divenire la intelaiatura ideologica sulla quale, da qui agli antipodi, si fonda ancor oggi l’occidentalesimo.
Un occidentalesimo i cui valori, codificati da Omero nell’Iliade e nell’Odissea, ma anche da Eschilo, che nelle sue tragedie ne svilupperà gli aspetti più sofisticati, sarebbero stati poi modificati in funzione dei tempi – sotto l’influsso della cultura ebraico\cristiana – prima da Virgilio, con l’Eneide, e poi da Dante, con la Divina Commedia, che rappresenta il codice morale della società borghese nel mondo.
A duemilaottocento anni di distanza il Giovanni di cui a La storia di Giovanni e Margherita, quando si spoglia delle vesti (le pseudoculture) e, armato della scimitarra del coraggio, si scaglia contro l’accozzaglia delle forme del conoscere sue e del suo contesto, ebbene, nel mentre «con la gola piena dell’urlo della vittoria» divora il terreno sotto di sé, quel Giovanni è appunto mosso dall’ideologia della forza di Achille, della sapienza generosa di Ulisse, e del coraggio indomabile di Ar, simbolizzato dalla curva asiatica della sua scimitarra.
Giovanni, cioè, armato dei valori della cultura occidentale accresciuti dall’esperienza della modernità, si scaglia contro i mostri frutto delle degenerazioni di quella stessa cultura: «le forme del conoscere sue e del suo contesto».
Ma, tornando alla Grecia, le madonne amate dalle masse del vicino Medio Oriente, originariamente espressione delle divinità pagane di terra, non avrebbero dato un attimo di tregua agli dei pagani.
Pian piano, irretendoli nei più strani connubi, sarebbero riuscite a trascinarli definitivamente dalle vette dell’Olimpo, sede delle divinità greche, fino alla grotta di Betlemme, nella quale sarebbe nato il nuovo, particolarissimo Dio dei cristiani, per integrare così la potenza di suo padre Javhè, il Dio degli ebrei che, già da una quindicina di secoli, era il loro simbolo nella guerra per la democratizzazione della società.
Anche la massa cioè – in quanto ostile alle concezioni naturalistico\meritocratiche, utilizzate quale base ideologica della legittimazione del suo asservimento – sapeva bene di dover vincere la guerra per l’appropriazione del Dio.
Per cui – giacché desumere le sue regole morali\religiose dalle regole della realtà l’avrebbe ricondotta al naturalismo meritocratico\pagano – fu costretta a escogitare un Dio metafisico.
Un Dio cioè che, libero dal rigore della regola naturale, potesse essere assoggettato senza difficoltà alle esigenze della massa, fra le quali, fondamentalmente, quella di potere affermare, a prescindere dai meriti, una pari umanità di tutti gli uomini da poter contrapporre alla maggiore umanità pretesa dagli aristocratici.
‘L’operazione’, eccezionalmente meritoria, ma che avrebbe richiesto un livello di conoscenza concettuale molto più evoluto, riuscirà solo in parte, dando luogo a una società magari più democratica, ma anche più alienata, come alieno era il Dio sul quale si era fondata.
Tutto ciò accadrà in due ambiti spazio-temporali-culturali (Grecia e Medio Oriente), che troveranno poi il loro sbocco unitario in Italia, con l’impero romano.
Un’unitarietà che aveva un’antica radice, e valga l’esempio di re Davide.

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Computer intelligente: attuale irrealizzabilità

Computer intelligente: attuale irrealizzabilità

 

Il motivo per il quale non si può oggi realizzare il computer intelligente è che per farlo bisogna prima sapere cos’è l’intelligenza, e la scienza moderna non lo sa.
Ora, io non sono un programmatore, ma un ideologo che scrive teorie di tipo auto dimostrativo, ovvero dimostrate dalle stesse parole con cui sono scritte, ed ho appunto scritto una teoria sul modo di formazione del pensiero e sull’intelligenza.
L’intelligenza, cioè, non consiste nella mera capacità di formulare concetti, strategie ecc., che per esempio hanno anche gli animali, ma in un particolare modo di farlo, ovvero nella capacità di svilupparsi passando attraverso lo sviluppo degli altri.
L’intelligenza è cioè tecnicamente nata nel momento in cui un’entità fino ad allora animale ha iniziato a maturare un sufficiente livello della consapevolezza di poter raggiungere un superiore stadio di benessere e di sviluppo solo attraverso il concorrere alla vita ed allo sviluppo degli altri individui.
Tale speciale consapevolezza, acquisita in seguito a chissà quali e quanto remoti trascorsi esperienziali, avrebbe poi dato luogo agli schemi primordiali di quelle forme del conoscere che usiamo definire “altruismo”, “sensibilità”, “generosità”, eccetera, che rappresentarono la base per iniziare a vivere l’interrelazione fra individui secondo canoni che, appunto, da quel momento, li avrebbero resi “umani”.
Di talché, considerato l’individuo come il centro di un cerchio, si può dire che egli è tanto più intelligente quanto più è ampio il cerchio delle esigenze altrui che riesce a contenere nell’ambito del suo “raggio di azione” mediandole con le sue.
Fermo restando che la furberia non è affatto sparita dal sistema mentale dell’uomo, ma, sotto la pulsione, pure indispensabile per lo sviluppo, di perseguire il massimo del risultato con il minimo dello sforzo, si è trasformata in tendenziosità, ovvero tendenza a strumentalizzare l’intelligenza alle finalità della furberia.
Nessun computer sarà quindi mai “intelligente” se prima non lo si programmerà in modo da dosare le sue scelte secondo i criteri con cui lo fa l’uomo, ovvero in base alle pulsioni fondamentali ed alle regole ne derivano, che costituiscono poi ciò che gli uomini chiamano morale.
Pulsioni fondamentali che sono: la volontà di sopravvivere, svilupparsi, riconoscere, essere riconosciuti, raggiungere il massimo risultato con il minimo dell’impegno.
Bisogna insomma programmare le macchine in modo che sappiano individuare la corretta qualità e quantità (misura) in cui queste cinque pulsioni fondamentali devono interagire nei processi “intellettuali” ai quali sono preposte.
La mia teoria sull’intelligenza (sul modo di formazione del pensiero) è comunque ben più ampiamente descritta nei miei libri, ed in particolare in “La storia di Giovanni e Margherita” (scaricabile gratuitamente), scritta in forma narrativa per facilitarne la divulgazione di massa.
Teoria, appresa la quale, credo non sia difficile realizzare dei programmi per insegnare a delle macchine ad operare in maniera “intelligente”, magari partendo dalle operazioni più facili.

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La consumazione delle culture dell’amore fin qui vigenti

La consumazione delle culture dell’amore fin qui vigenti

tratto da “La storia di Giovanni e Margherita”

 

Riassumendo, i modi di sentire l’amore tipici del contratto sociale voluto dal potere economico sono basati sulla genitalità, lo strategismo, la prevaricatorietà, il dominare per non essere dominati e l’uso della sessualità per incidere nell’emozionale profondo altrui impedendo l’accesso al proprio.
Problematiche aggravate dal ‘68’: punto di partenza di una società dissoluta ma moralista come prima, non essendo stata quella ‘rivoluzione’ rivolta a liberare la società dalla repressione sessuale, ma a consentire la circolazione delle donne per fini di consumo attraverso l’imposizione della sessualità genitale.
La guerra dei sessi seguita alla rottura dei vecchi schemi ha poi reso l’affidarsi all’altro attraverso le vecchie forme affettive troppo problematico e rischioso.
Ecco così che oggi non si può più provare il tipo di amore che vigeva fino ad alcuni decenni or sono, e le nuove forme emotive\amorose sono ancora incerte e contraddittorie, perché non è chiaro quali regole devono ora vigere nella coppia.
Regole che, usando la dialogicità sessuale e non, saranno mediate attraverso le esperienze dei miliardi di uomini del pianeta, finché si giungerà al nuovo modo di provare l’amore di cui saremo ‘corredati’.
Non prima però che venga sconfitto il signoraggio bancario primario e secondario, vigendo il quale non si può affrontare nessun altro problema (compreso quello, fondamentale, dell’involuzione climatica), essendo il dominio mondiale del potere bancario attraverso il signoraggio la radice delle concezioni vigenti.

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La normalità nella cultura greca e pagana in generale

La normalità nella cultura greca e pagana in generale

tratto da “da Ar a Sir “

 

 

I componenti di ogni collettività, nell’ambito dell’ininterrotto rapporto di forza fra loro, mediano continuamente un modo univoco di dover concepire la realtà, che fissano poi in valori che divengono gli attributi del ‘dio’ vigente: la loro mente collettiva\cultura.
Il Dio pagano è di tipo naturalistico, ovvero un Dio i cui attributi (valori) sono tratti direttamente dalle regole vigenti nella natura in generale e nella natura dell’uomo in particolare.
Ovviamente, in una tale concezione la massima qualità che l’uomo possa esprimere sarà la ‘normalità’: una ‘normalità’ intesa come perfetto equilibrio qualitativo e quantitativo di tutte le componenti.
Una ‘normalità’ in realtà sublime, che consentì infatti all’arte pagana di raggiungere livelli mai più raggiunti dopo la perdita di queste concezioni, cioè da dopo il sopravvenire dell’occidentalesimo (fase della tendenziosità).
Naturalmente anche nel fondo della mente collettiva greca doveva esserci la consapevolezza della strumentalità dell’idea religiosa o morale in generale, ma essa, assorbita dalla pienezza con cui l’aristocrazia riusciva a vivere i suoi ruoli, non è visibile in ciò che ci hanno lasciato.
I templi greci hanno appunto l’armonia della consapevolezza piena della forza, ovvero della loro ‘normalità’.
Essi, nella loro immensa potenza, non tendono verso nulla: sono!

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Dante Alighieri e la cultura italiana

Dante Alighieri e la cultura italiana

tratto da “da Ar a Sir “

 

La cultura latina, dunque, fu pagana, mediata però dal grande contributo della cultura di massa ebraica.
Uno dei suoi elementi fondamentali fu l’intuizione del concetto di humanitas, perché i romani furono i primi a formulare il concetto di genere umano, umanità, a prescindere dalla classe o dalla nazione, anche se, data la lentezza degli uomini nel realizzare le buone intenzioni, ciò non impedì loro né di praticare la schiavitù, del resto vigente fino a ieri, né di dare forma all’ideologia del provincialismo, nella quale relegarono tutto il mondo conquistato.
In ogni modo, quel concetto di humanitas fu alla base del loro impero e – nonostante certe pur molto vantate civiltà moderne non l’abbiano ancora appreso – rappresenta il minimo indispensabile per il corretto svolgimento della politica internazionale.
Roma comunque crebbe, si sviluppò, e poi pure cominciò a decadere, nel mentre scorreva tumultuoso un fiume di eventi tanto ampi, numerosi e complessi da non poter essere nemmeno accennati in una trattazione come questa, che vuole essere sintetica il più possibile, scritta per di più in tre mesi, dopo soltanto due di ricerche.
In mille anni, mille popoli, mille tendenze, mille filosofie interagirono senza tregua.
Dopo tredici secoli da Virgilio tutto questo divenne cultura italiana: il mondo degli stupendi valori pagani, sublimato dalla sofisticatezza tendenziosa del cristianesimo d’oriente e d’occidente, divenne cultura borghese.
L’uomo che decodificò e poi ricodificò tutto ciò, riformulandone i valori, fu, come già detto, Dante, il quale, con il magnifico stratagemma del percorrere i gironi dell’inferno, del purgatorio e del paradiso, ripercorse in realtà le tappe fondamentali della morale vigente proponendo nel contempo la successiva.
Nel frattempo, dall’alto dei cieli trinitari, l’astuta Madonna precristiana, l’originario simbolo paganeggiante della maternità, ora divenuta sapientissima e filosofissima, rise di soddisfazione e divin gaudio: dopo gli autori di Ghilgamesh, Omero, Eschilo e Virgilio, quell’uomo era, in ordine temporale, il quinto.
Con gli autori di Ghilgamesh, Omero ed Eschilo aveva perso, con Virgilio s’era accordata, ma con Dante aveva trionfato.
Dante, di fronte alla crisi ormai irreversibile dei valori del paganesimo e della prima fase del cristianesimo, che nella selva più fatiscente che terribile della sua mezza età ravvisò nella lonza, nella lupa e nel leone, simbolizzanti i vizi capitali, lanciò gli «alti lai» ben sapendo che il povero Virgilio, che certo non avrebbe voluto spingere il suo molto improbabile cristianesimo fino a quel punto, ma non aveva più la forza di insorgere di fronte all’ormai inarginabile potenza delle concezioni della Chiesa, sarebbe accorso e lo avrebbe guidato e difeso in quella vera e propria finzione scenica, ovviamente sublime, ma non per questo meno offensiva.
E basti osservare che Dante arriva al punto – dopo essersi fatto accompagnare da Virgilio per tutto l’inferno e il purgatorio – di lasciarlo alle porte del paradiso al quale, in quanto pagano, gli nega l’accesso.
Ma Virgilio non è il solo al quale Dante rechi questa offesa.
Insieme a lui, nel limbo, colloca finanche Omero, Aristotele, Platone, Democrito, Diogene e poi ancora Orazio, Ovidio, Lucano e sostanzialmente tutti i grandi uomini del passato eccetto, è chiaro, i personaggi dell’Antico Testamento, che invece, senza andare troppo per il sottile, infila in blocco in paradiso.
Tale è insomma l’ingenerosità di Dante, ma si direbbe meglio del cristianesimo, che, neppure dopo che la guerra fra paganesimo e cristianesimo era ormai finita da secoli, viene loro perdonato di essere stati pagani, pur essendo stati, quando erano uomini in carne e ossa, i veri motori del mondo e della cultura da cui il cristianesimo era nato.
Ma l’episodio in cui si riconosce meglio la chiusura di Dante e del cristianesimo verso la cultura pagana è l’incontro con Ulisse.
Ulisse, l’uomo animato dalla sete inarrestabile di una conoscenza senza limiti sì, ma pure accorata, profondamente umana, struggente, conscia delle necessità della vita, non intransigente, pronta agli slanci benché sempre accorta per sé e per gli altri; l’uomo che con lo sguardo consapevole e il volto illuminato dalla luminescenza delle statue greche aveva navigato intrepido nei mari dell’inconoscibile; il marito di Penelope, conscia del trascorrere del tempo, ma indistruttibile nella sua capacità di attendere; il padre di Telemaco, capace dopo venti anni di avvertire dentro di sé le avvisaglie del ritorno di un padre conosciuto solo nel canto dei poeti e di vincere l’ostilità di cento principi per cercarlo e affiancarlo senza un attimo di titubanza contro coloro che in tanto tempo si erano inutilmente adoperati a ingannarlo; insomma, quest’uomo stupendo, che è certo il più bello, il più compiuto, il più umano, il più sapiente, il più intelligentemente ardimentoso degli eroi di tutte le letterature, l’uomo capace di non rinunciare mai alla volontà di andare avanti e nello stesso tempo di non cancellare mai dal suo cuore la volontà di tornare ai suoi affetti lontani, ebbene, un uomo tale Dante lo pone all’inferno, tra i consiglieri di frode.
Ma la verità è tutt’altra.
Dante conosce bene la grandezza di Ulisse, che è poi sinonimo di Omero, perché è in lui che Omero si identifica, e sa anche che egli, in quanto interprete purissimo della concezione naturalistico\normale, è immensamente più grande di lui, e che il suo tuttavia enorme castello dottrinario, a Ulisse, abituato a cercare direttamente le essenze delle cose, sarebbe sembrato un deposito di cianfrusaglie.
Dante infatti, nonostante confessi l’impulso irresistibile di parlargli, non osa rivolgergli la parola, ma lo fa interrogare da Virgilio, dal quale fa dire, attribuendogli una superbia inesistente nel carattere di Ulisse, che a lui non risponderebbe perché i Greci consideravano gli altri popoli barbari, mentre parlerebbe con Virgilio per averlo quest’ultimo esaltato nell’Eneide (dunque è consapevole che lo sta oltraggiando nella Divina Commedia).
Ma la preoccupazione di Dante è manifestamente insincera, perché, come testimoniano l’Iliade e l’Odissea, Ulisse e la cultura greca erano alieni da ogni tipo di chiusure e generosamente aperti verso ogni interlocutore.
Del resto Dante colloca sì Ulisse nell’inferno e commette l’ignominia di immiserirlo in quanto ‘consigliere di frode’ (in realtà Ulisse è lui stesso fra gli eroi che rischiano la vita nascosti nel cavallo di legno, e il suo è un gesto di guerra), ma non osa poi trattarlo come un vero dannato.
Tant’è che dopo averlo rappresentato in forma di fiamma che arde (il che, considerato il luogo, equivale a un’allusione ambiguissima alla sua intelligenza), ce lo mostra, non solo integro nella sua dignità, ma anzi altero di un’alterigia peraltro assente nel suo carattere mitologico.
Perché mi sono tanto dilungato su questo episodio dell’inferno dantesco? Perché null’altro può spiegarci meglio il rapporto di odio\amore fra la cultura pagana e le involuzioni ancora irrisolte della cultura cristiana.
Una delle discrasie fondamentali del cristianesimo è infatti proprio nel tipo di paradiso prospettato, di cui Dante, che del cristianesimo è un profondo conoscitore, formula, dopo tredici secoli da Cristo, il vero modello.
L’ebraismo e il cristianesimo, infatti, per negare il valore di tutto ciò che potesse minarli, finiscono per affermare un tipo di paradiso in cui la beatitudine è costituita da cose che non coincidono in alcun modo con nessuna delle forme di benessere, e tanto meno di godimento, tipiche della società umana, la quale è fisiologicamente e psicologicamente impedita a poter considerare beatitudine il fatto di trascorrere l’eternità a essere luminescenti godendosi nel mentre lo spettacolo della luminescenza di Dio.
Con il risultato che ne è derivata una Chiesa molto più fondata sulla paura dell’inferno che sul desiderio del paradiso.
Un paradiso che il paganesimo non disegna affatto, perché il paganesimo, in virtù del suo naturalismo, non conosce alternative alla vita terrena, unico paradiso dell’uomo, sicché descrive il regno dei morti, l’Ade, come un luogo sotterraneo comunque tragico appunto per l’assenza della vita.
D’altra parte una diversa concezione di paradiso avrebbe causato una diversa concezione della vita, e questo avrebbe posto la Chiesa in crisi.
Perché mai, infatti, se fosse stato prospettato un modello desiderabile di vita paradisiaca, non si sarebbe dovuto cominciare a praticarlo già sulla terra?
E come dunque avrebbe la Chiesa potuto garantirsi nei secoli l’immobilismo culturale e politico ai fini della conservazione del potere?
Ciò che piuttosto potrebbe sorprendere è che Dante si sia potuto prestare a questo obbrobrio, ma la verità è che Dante era lui stesso visceralmente bigotto e ipocrita.
Quanto al suo genio poetico, serva da lezione: i poeti sono i veri padroni del mondo, perché con la bellezza del verso sono in grado di fare passare per buona qualunque affermazione.
Ma, detto di Dante tutto il male possibile, vediamo ora, da un punto di vista diverso, l’enorme impulso positivo che diede alla cultura!
La simbologia della selva oscura popolata dalle tre orribili fiere, l’annuncio del veltro (che è lui stesso), l’omaggio ai valori fondamentali del classicismo pagano rappresentato da Virgilio – dal quale Dante si fa tuttavia accompagnare quale suo maestro e autore, benché poi lo ripaghi così male – hanno anche, e direi anzi fondamentalmente, valori e valenze diverse da quelle sopra descritte.
Il XIII e XIV secolo, e Dante in particolare, chiudono la cultura classica, e danno inizio a una nuova fase.
Dopo di lui, e proprio sulla base ideologica e culturale rappresentata dalla Divina Commedia, ci saranno quattro, cinquecento anni in cui la cultura, in tutti i campi, per quanto avvilita dalla tendenziosità implicita nel cristianesimo, rifulgerà.
Intanto, nel cuore dei protagonisti di quella divina commedia che la vita moderna andava ogni giorno di più diventando, gli eroi greci, solo apparentemente rallegrati per quella superficiale lucidatura, ma in realtà avviliti per quell’ennesima beffa, rinviarono la loro feroce vendetta, ormai ridotta a un’accesa volontà di confrontarsi ragionevolmente, alla prossima occasione.
Ar, Achille, e gli altri di indole più guerriera, che in realtà saranno rivalutati dall’Umanesimo e dal Rinascimento, piansero amaramente e credettero che quella volta fosse realmente l’inizio della definitiva fine.
Ulisse, l’ormai pio Enea, e gli altri più temperati nelle virtù ‘femminili’ della morigeratezza e dell’attesa, riuscirono a rincuorarli a stento.
In questa nuova situazione e sulla base di questi nuovi valori ricominciò la vita.
Più tardi, a bordo delle navi di Colombo, Vespucci, Magellano, Cook e tanti altri, dopo essersi consolidati nel vecchio continente, sarebbero debordati in tutto il mondo, ivi compresa l’aristocratica Asia, i cui eroi antichissimi e nobilissimi – di fronte ad un cristianesimo peraltro ormai tanto sviluppato da avere interesse più alla colonizzazione che alla vera conversione degli altri popoli – riuscirono tutt’al più a ottenere la conservazione dei simulacri di quello che erano stati, ma nulla di più potettero contro le ormai strapotenti divinità cristiane, da quel momento sorrette dal genio di Dante.
I secoli successivi, tutti all’impronta del razional-spiritualismo, padre diretto dell’attuale pseudo-razional-consumismo ‘umanistico’, videro il verificarsi di eventi sempre più grandi e caratterizzati dalla partecipazione di fasce sociali sempre più vaste.
Dante, con la sua opera scritta in volgare appunto in omaggio alle masse, se da un lato era stato molto ambiguo verso la cultura aristocratico-pagana, i cui valori comunque considerava irrinunciabili e superiori, dall’altro fu senz’altro il massimo e il più meritevole artefice della cultura di massa, e dunque dell’avvento della democrazia.
Quanto poi all’apparente contraddittorietà di questi fenomeni, credo sia chiaro che non di contraddittorietà si tratta, ma di quel polimorfismo che, per il suo equilibrio e per la sua capacità di trarre sintesi armoniche dalla molteplicità degli aspetti della realtà, rese grande la cultura italiana in contrapposizione a tutte quelle forme di manicheismo che sono il presupposto dello schematismo, dell’incomprensione e dell’intolleranza in altre culture.
Sarà proprio questo, anzi, a favorire il sempre maggiore allargamento sociale dei fenomeni culturali e a causare che da un certo momento in poi essi diventino di massa.
Quella massa cioè, sia pure in una concezione non certo così estensiva come la intendiamo noi oggi, si riapproprierà dei valori della cultura classica e, mediandoli con le sue nuove esperienze, li esprimerà in tutti i campi dello scibile.
Di lì a poco, la miccia che Dante aveva innescato con la sua opera ingente, attraverso un meccanismo di inarginabili reazioni a catena, farà esplodere nel cielo del firmamento italiano le spaventose tensioni che migliaia di anni di storia vi avevano accumulato e le trasformerà, nella letteratura e nell’arte, nei massimi fenomeni culturali che il mondo abbia avuto, e che si sarebbero poi espressi attraverso uomini che nessuna altra cultura riuscirà mai a generare, e in Italia si succederanno invece innumerevoli per secoli.
I grandi musei del mondo, compreso il Louvre, nel quale ho trascorso una settimana nel dicembre scorso per raccogliere materiale per questo libro, sono grandi soprattutto in quanto zeppi di arte italiana, oltre che greca, egiziana, assira, babilonese e così via; e finanche in relazione all’impressionismo ci sono a mio avviso nello stesso Louvre decine di quadri italiani, anteriori a volte di secoli, la cui cromaticità appunto impressionistica vale da sola tutte le opere di quel pur magnifico movimento.
Senza contare i musei di Firenze e d’Italia: in realtà il mondo moderno, nel mentre non fa altro che dirlo, non sa che La Nascita di Venere, La Primavera, La Gioconda o La Pietà (Louvre e Vaticano) contengono quel momento culturale dal quale appunto – sia dato a ognuno il suo e absit iniuria verbis: con l’aiuto dell’utensileria predisposta dai paesi più tecnologicamente avanzati – sta per sgorgare un’altra buona parte della storia del nuovo universo!
Ma ritorniamo alla tendenziosità.
Tendenziosità o non tendenziosità, la spinta inarginabile che da sempre muove la vita verso l’alto, verso lo sviluppo, riuscirà a far sì che gli uomini daranno al loro operare tendenzioso le forme dell’arte più raffinata ed evoluta, e a trasformare sovente il loro dolore e la loro miseria nella più splendente ‘umanità’.
Ciò che invece, dopo duemila anni, non è ancora riapparso è quella ‘normalità’ che aveva caratterizzato le concezioni e l’arte dei pagani in generale e dei Greci in particolare.
Finanche La Pietà, pur straordinario esempio di arte in tanto dogmatismo e tendenziosità (quando mai gli uomini o le madri o, se si vuole, gli dèi, hanno sofferto in quelle pose?) altro non è che il prototipo e la base ideologica di quella che sarà poi la cosiddetta arte hollywoodiana.
Quanto a La Gioconda, il suo sorriso, enigmatico appunto, sarà proprio la formalizzazione in arte della tendenziosità di cui sto parlando.
La tendenziosità de La Gioconda, la cui profondità semiologica ha alle spalle questi duemila anni di storia, ha come sua principale valenza la malizia.
La Gioconda, come tutti i maliziosi, penserà di essere il sale della terra.
Fidia, guardandola, difficilmente, per la stizza, sarebbe riuscito a trattenersi dal pensare per un istante che in fondo Ella non avrebbe mai capito di non essere niente altro che maliziosa.
Leonardo, infatti, nel dipingerla, riuscirà a immortalare sul volto di un essere umano la massima espressione dell’artificiosa consapevolezza alla quale una mente umana può giungere una volta che ha perso l’originaria ‘normalità’.
Non fu però Leonardo a inventare quel volto di donna.
Egli lo copiò da un’immagine riverberata dagli scritti di Dante: quella donna è l’ambigua Madonna che traspare tra le righe del suo paradiso di alienati luminescenti.

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La democrazia

La democrazia

tratto da “La storia di Giovanni e Margherita”

 

Nel modello sociale originario ogni individuo semplicemente usava la forza per ottenere ciò che gli occorreva.
Da subito, però, per non essere costretto all’esercizio continuo della forza, e per avere una modalità di relazione ‘amorosa’ con gli altri individui (riconoscimento), istituiva un livello di mediazione con cui, a corrispettivo di quanto ottenuto con la forza (privilegi e comando), offriva qualcosa (concessioni e tutela).
Da quel momento, instauratosi il regime contrattuale e mediata una cultura che consentisse ai prevaricati e ai prevaricatori di celebrare la finzione dell’altruismo, tutto quanto le punte avevano ottenuto con la forza (privilegi e comando), e tutto quanto la massa aveva ottenuto con il resistere alla forza (concessioni e tutela), diveniva diritto e morale.
L’evoluzione dell’organizzazione sociale da mero gruppo a branco, tribù, città e popolo ha richiesto che i prevaricati (massa) contribuissero in maniera sempre maggiore e migliore all’impegno dei prevaricatori (punte).
I prevaricati, a fronte del loro maggiore e migliore impegno, hanno richiesto, nell’ambito del rapporto di forza, un riconoscimento (diritti) sempre maggiore e migliore secondo il ruolo che andavano a occupare.
Ciò ha causato, nella fase originaria, un assetto della società umana di tipo naturalistico, ovvero pagano, ovvero aristocratico, a imitazione dell’aristocraticità della natura. Fin quando, a un certo stadio, nel cuore della società egiziana, nella quale la cultura aristocratica era degenerata in un cupo aristocrazismo insopportabile per la massa, comincerà a prendere forma un nuovo principio esistenziale in virtù del quale un nucleo di uomini deciderà che, da quel momento, qualunque cosa gli fosse costato, fosse stata pure la vita, si sarebbe autodeterminato (ideologia del perire in quanto singoli pur di salvarsi in quanto collettività).
Quegli uomini, al seguito di Mosè, si lanceranno in fuga dai valori di quell’aristocrazismo verso il ‘deserto’ dei non ancora codificati valori della nuova cultura: la cultura ebraica: la prima cultura di massa, la prima cultura democratica.
Democraticità che, per potersi affermare, esigerà, quale prima operazione culturale, il trasferimento degli dei dalla fisica alla metafisica, perché i rigidi principi aristocratici che dominano la fisica (la natura) li avrebbero altrimenti di nuovo ricondotti a una religione e a una morale di tipo aristocratico.
Divinità pagane numerosissime perché espressione degli infiniti oggetti e processi della fisica (della natura), sicché, relegate che furono in blocco nell’omogenea unicità della metafisica, fu automatico raggrupparle in un unico principio e proclamarlo Dio.
Un Dio metafisico che, in quanto libero dagli obbligatori principi fisici, fu da allora possibile configurare secondo le esigenze della massa per renderlo funzionale al neonato, straordinario fenomeno democratico espresso dal mondo ebraico.
Una nuova religione con la quale verrà affermato – per la prima volta mediante strumenti ideologici adeguati – il principio, non naturale ma stupendo, dell’uguaglianza degli esseri umani in relazione ai diritti fondamentali, ovvero ai diritti legati, non a questa o quella opera, ma alla mera qualità di persona.
Un principio che pervaderà, attraverso il cristianesimo, la cultura latina, dando così luogo, a Roma, alla cultura occidentale, il cui primo codice dei valori è l’Eneide.
Cultura occidentale nata dalla confluenza del naturalismo aristocratico greco pagano, che ha il suo codice dei valori nell’Iliade e l’Odissea, e del concettualesimo ebraico cristiano, il cui codice dei valori è la Bibbia.
Codice dell’occidentalesimo che, dopo tredici secoli, Dante, raccogliendone l’eredità, decodificherà e riformulerà nella Divina Commedia (attraverso l’espediente sublime dei gironi), che costituirà la base ideologica sulla quale si svilupperà nel mondo la cultura e la società borghese.
Dante che, con la sua opera, supererà definitivamente le forme della conoscenza del paganesimo, ormai logore, e getterà le basi per dare realmente corpo ai valori del cattolicesimo.
Quelli precedenti: i valori aristocratici generati dalla concezione pagano\naturalistica, avevano sì reso insuperabili le pagine dell’Iliade e dell’Odissea, o dell’Agamennone di Eschilo: l’uomo che ha codificato gli aspetti più sofisticati della morale, ma erano costati la condanna all’inesistenza ideologica della massa.
Scrive infatti il sublime Omero: «..scese Ulisse, ..o Achille, ..o Ettore.. ..in campo.. e sgominò i nemici..», ma non allude nemmeno alle schiere che ovviamente li seguivano..
Ma torniamo a Dante.
Con Dante, gli uomini di quella fase storica, adottate le nuove forme del conoscere, poterono continuare la finzione dell’altruismo che, a causa dell’ormai evoluto livello di mediazione, già da allora, richiedeva concezioni (forme del conoscere) molto sofisticate dell’amore, onore, carità.
La democrazia dantesca, espressione avanzata della democrazia cristiana originaria, della quale riesce a garantire la continuità sublimandone e santificandone il limite, rappresentato dal premio in cielo per la non democraticità di fatto subita sulla terra, si è svolta ed ha retto fino al sopravvenire dell’industrializzazione.
L’industrializzazione, massimo evento positivo mai verificatosi nella storia dell’universo conosciuto, sebbene fin qui non interpretata al meglio, di nuovo, ha dato luogo a un mutamento, il maggiore, nell’ambito del rapporto di forza fra masse e punte.
Mutamento al quale, ancora una volta, è conseguita la necessità di forme del conoscere ulteriori atte a poter continuare la celebrazione della finzione dell’altruismo.
Tali nuove forme del conoscere\culture sono state espresse dal marxismo.
Si è cioè verificato che le punte hanno avuto, con l’industrializzazione, la necessità di ricevere dalle masse una qualità e quantità di impegno diverso e maggiore (superlavoro-sottosalario) di quello che esse avevano fino a quel momento espresso nell’ambito delle culture precedenti.
Le masse, a fronte di questo maggiore impegno, hanno rivendicato un maggiore riconoscimento e maggiori diritti, e li hanno ottenuti attraverso l’attuazione, cruenta o mediata, dei principi marxisti.
Parallelamente è iniziata, in seguito all’acquisizione di un potere autentico da parte delle masse, la fase rivendicatoria.
Ovvero la fase in cui il potere ha iniziato a offrire, e le masse hanno cominciato a rivendicare, anche tipologie di acquisizioni non sempre congrue rispetto a un processo di vera civilizzazione: la fase alla fine della quale i valori del mondo borghese degenereranno nei mostri del muro degli pseudo valori di Giovanni.
Una fase in cui la forza delle punte e delle masse è andata sempre più uniformandosi, e lo scontro per ottenere il maggiore vantaggio ha iniziato a svolgersi non più sul piano dell’identificazione di un corrispettivo coincidente con una prestazione, ma su quello dell’ottenere il più possibile in virtù della mera forza.
Fermo restando, naturalmente, che tutti i vantaggi e i ‘diritti’ che – soprattutto le punte, ma per certi versi anche la massa – riuscivano a ottenere sono sempre stati qualificati come giustamente ottenuti a corrispettivo dell’impegno, e giammai come estorti in maniere che, da brutali, sono andate sempre più divenendo mediate e truffaldine.
Da ultimo è iniziata una seconda e veramente straordinaria fase dell’industrializzazione.
Si è cioè verificato che il quantitativo dei beni prodotti in virtù delle macchine è diventato tanto grande che è stato necessario creare un’apposita cultura per indurre le masse a consumarli.
È così nata la cultura consumistica (sessualconsumismo feticistico ora divenuto pseudo-razional-consumismo ‘umanistico’, esaminati di seguito), finalizzata a subordinare l’uomo alle logiche produttive anziché le logiche produttive all’uomo.
Le masse, quindi, prese nell’ingranaggio, hanno rivendicato sempre maggiori diritti e consumi, e le punte, comunque più forti e più esperte nell’attuazione di strategie fraudolente in continua evoluzione, hanno alimentato esse stesse il potere rivendicatorio delle masse perché, proprio con la crescita delle rivendicazioni, è cresciuta la possibilità di assorbimento dei beni prodotti.
Le punte dunque si sono ‘fatte costringere’ a evolversi sempre più, e per poterlo fare hanno dovuto, da un lato, alimentare in maniera crescente la fame di diritti delle masse e, dall’altro, per poterle tuttavia dominare, escogitare ulteriori forme del conoscere\culture incontrollabili e cervellotiche.
Il risultato è che attualmente le punte detengono un potere enorme, ma esso è poi interamente fondato sul consenso delle masse che, in quanto ingannate e sofferenti, sono sempre più riottose e ambigue nel concederlo, tanto che le stesse punte ne soffrono e sono in crisi.
In particolare l’ugualitarismo, rivendicato e offerto a corrispettivo del consenso, è uno dei peggiori prodotti di questo incongruente livello di mediazione.
Gli uomini infatti – fermo restando l’uguale diritto universale a un’esistenza libera e dignitosa, alla cui realizzazione comunque ciascuno ha il dovere di concorrere per quello che può – non solo non sono uguali, non lo sono mai stati, e non lo saranno mai, ma sono tutti diversi e hanno diritti diversi fondati sulla loro diversità, sicché l’ugualitarismo non è che una pseudocultura, ormai tanto tortuosa e contraddittoria da non potere più reggere, che le masse sono riuscite a imporre alle punte.
(Già Nietzsche afferma la disuguaglianza degli uomini. Egli però, dominato dal suo ‘amore’ per l’individuo, non svolge adeguatamente il tema del rapporto che esso, ai fini di un corretto sviluppo, deve avere con il contesto. Con l’atroce conseguenza che le sue teorie, benché molto impropriamente, hanno finito per alimentare la follia nazista).
Tale ormai insostenibile finzione, poi, nel momento in cui ne è iniziata la crisi, ha causato una crisi senza precedenti dell’umanità, per cui nessuno, in tanta contraddittorietà di diritti e riconoscimenti rivendicati e offerti da ogni possibile direzione e posizione, è più in grado di stabilire con certezza quali forme del conoscere\culture\morali adottare per poter vivere nell’ambito di uno stabile rapporto di mediazione.
E’ necessario, pertanto, innanzitutto che vengano messe al bando le finzioni dell’altruismo\culture\morali superate, dalle quali nessuno ormai si lascia più ingannare.
Quindi che ci si dia atto del proprio reciproco egoismo (a questo punto esigenze).
Ed infine che vengano adottate nuove forme del conoscere in virtù delle quali ciascuno, preso e dato atto della propria volontà di prevaricazione\esigenze, se le viva compatibilmente con le esigenze degli altri.
Un così evoluto e moderno livello di mediazione implica però una diversa modulazione della volontà di prevaricazione, e che si affermi dunque la vera democrazia.
Ed eccoci al punto di arrivo della nostra analisi che è la definizione del concetto di democrazia, che è quel regime nel quale vigano le già menzionate due regole comportamentali:
1) il diritto a esserci ed essere riconosciuti si conquista con le opere di contributo alla vita degli altri;
2) il diritto a vivere che tutti hanno comporta la necessità, che è amorosa, di negare (previa disamina analitica della fondatezza delle ragioni di ciascuno, e nei limiti, nelle forme e con gli obiettivi della morale, del diritto e più in generale dell’intelligenza) chi ci nega, per poter così salvare se stessi e contribuire, a mezzo della propria vita così salvata, sia alla vita del contesto che alla vita di chi ci ha negati, indicando inoltre a quest’ultimo la necessità di cambiare allo scopo di poterlo ritrovare.
Nell’affermazione di esse, pertanto, e non nell’affermazione aprioristica dell’uguaglianza, consiste la democrazia.
Il contesto poi, avendo l’esigenza che gli individui concorrano fra loro al suo sviluppo (‘si amino’), curerà che nessun individuo prevarichi gli altri, e che si affermino sempre più le due regole.
L’ugualitarismo è una grave causa di malessere del contesto civile perché, da un lato, ogni volta che vengono riconosciuti diritti che non competono si crea uno scompenso, e, dall’altro, l’uomo di oggi, credendo di poter vantare aprioristicamente uguali diritti rispetto agli altri, e constatando che non gli vengono riconosciuti, finisce per cadere preda di una sofferenza continua per questo essere ‘ingiustamente perseguitato’ laddove è giustamente riconosciuto per quel che gli compete.
Per concludere, va svolta una considerazione.
Ogni evoluzione nel campo della morale e del diritto è laboriosa, perché in base a essi l’individuo, una volta che li ha adottati, costruisce poi la sua vita.
Per questo motivo, ogni volta che vede messe in discussione le sue regole comportamentali, anche se la disamina che lo si invita a fare è ovvia, rifiuta di capire, perché accedere alla critica lo condurrebbe a dover mutare: ovvero impegnarsi nuovamente a ricostruire ciò che ha con tanta fatica costruito, e per di più senza sapere se ci riuscirà ancora.
Egli dunque ‘non capirà’ mai, fino a quando, come oggi, non vi sia costretto o non gli convenga.
È vero quindi che è difficile cambiare, ma per questo non voler cambiare l’uomo di oggi ha già pagato un prezzo tanto alto da non poter pagare di più; ed ecco così che la più grande rivoluzione di tutti i tempi sta per avvenire: la rivoluzione dell’onestà interpretata non più come ‘valore’, ma come strumento necessario per poter dirimere l’immane scontro di tutti contro tutti in cui si è trasformata la vita nel pianeta.
Ciò comporterà il superamento della suddivisione delle ideologie in ideologie di ‘destra’ o di ‘sinistra’, entrambe errate perché entrambe fondate su di un criterio di disuguaglianza o di uguaglianza aprioristico, non fondato sulle opere e non adeguatamente controllato dalla collettività.
Dal che, sempre sul presupposto che sussista il controllo di massa, che deve essere realizzato dalla magistratura, non potrà che nascere una nuova ideologia che, trasformando l’industrializzazione da forza che strumentalizza l’uomo in strumento nelle sue mani, darà luogo a un nuovo umanesimo.
Un’ideologia che non sia di destra, perché la destra erra nel privilegiare l’individuo, né di sinistra, perché la sinistra erra nel sacrificarlo, né di centro, perché il centro è un porsi a mezza strada tra due errori, ma sia fondata sulla possibilità, per l’individuo, di svilupparsi anche all’infinito, come piace alla destra, purché il suo sviluppo sia funzionale allo sviluppo della società, come non può che piacere anche alla sinistra.

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Gli Ebrei

Gli ebrei

tratto da “da Ar a Sir”

Il messaggio di Cristo, in ogni caso, influenzò profondamente il popolo ebreo, che non fu però uniforme nel condividerne il valore.
Questo perché, nonostante il cristianesimo fosse destinato a produrre un profondo cambiamento della cultura pagana, recava tuttavia un coefficiente di aristocrazismo ancora troppo elevato, e tale da rivelarsi in antitesi con il nucleo centrale della cultura ebraica: la cultura della società orizzontale!
Cristo infatti era stato sì opportunamente relegato nella metafisica in quanto Dio, ma aveva di fatto parlato e vissuto in quanto uomo in carne e ossa, ed era stato un vero capo, perdendo così quei requisiti di astrattezza indispensabili per poter negare il principio naturalistico.
Quella materializzazione del Dio nel Cristo uomo non avrebbe potuto insomma che innescare quel processo di riavvicinamento alla regola naturale che avrebbe poi spezzato quella volontà di uguaglianza a tutti i costi che, anche a costo di comprimere i diversi, gli ebrei avevano voluto.
Un fondato timore perché effettivamente il cristianesimo produsse, non il superamento dell’aristocrazia, ma la sua trasformazione in nobiltà, che per molti versi sarebbe stata peggiore.
Abbiamo visto infatti che l’aristocrazia era fondata su un modello ideologico in cui l’individuo, partendo dall’idea della sua personale partecipazione alla natura, intesa però come divina, cercava di interpretarne le superiori concezioni.
Abbiamo anche visto che quando la cultura ebraico\cristiana si liberò dai ferrei vincoli della realtà mediante l’espediente di relegare il Dio verso cui tendere in una dimensione aliena, gli uomini finirono per improntare sempre più il loro quotidiano e la loro vita a una serie di astratti ‘valori’ escogitati via via in base alla pressione delle esigenze.
‘Valori’ carichi di un’arbitrarietà ben maggiore di quella che caratterizzava le regole alle quali si ispirava la società aristocratica, e che produssero un crescente e sempre più sofisticato coefficiente di ipocrisia.
Cose dalle quali derivò che l’aristocrazia cessò di cercare di interpretare le superiori concezioni naturali e assunse pian piano come sua connotazione fondamentale la tendenza a eleggere a morale il mero sforzo di riempire di contenuti – generalmente opportunistici, prevaricatorii, strategici, di classe – la distanza dal Dio alieno, ovvero di apparire, più che di essere, gli esecutori delle sue del resto astratte regole, dando così luogo alla creazione di quella discrasia fra comportamento e professione dei valori che da sempre caratterizza pesantemente il monoteismo ebraico come quello cristiano, e una delle cui espressioni è il bigottismo.
Cose che furono interpretate in due diverse maniere che iniziarono a produrre il delinearsi della scissione fra cristianesimo ed ebraismo, perché gli ebrei rifiutarono quella concretizzazione di Dio in Cristo che avrebbe formalizzato l’introduzione, nell’egualitarismo a ogni costo da loro voluto, di quegli elementi di naturalismo meritocratico poi espressi dal cristianesimo attraverso la nobiltà.
In pratica, una parte della cultura ebraica, pur riconoscendo l’importanza di Cristo, negò però che potesse essere il figlio di Dio e Dio in persona lui stesso, e si limitò a considerarlo un profeta, disponendosi nel contempo all’attesa sine die del vero messia, che non sarebbe dovuto mai arrivare, e che infatti non è ancora arrivato, perché se arrivasse causerebbe, per i motivi di cui sopra, una crisi del tipo di egualitarismo voluto.
Naturalmente neanche questa fu una premessa adatta a dar luogo a una vera democrazia, perché la negazione integralistica della cultura aristocratica e dei suoi valori, fu possibile solo al prezzo di un coefficiente di ipocrisismo ancora maggiore di quello di cui avevano avuto bisogno i cristiani.
Tutte cose che comunque, nel mentre il cristianesimo, nei secoli, si espandeva sempre più, causarono un atteggiamento di sempre più forte recriminazione verso gli ebrei che, benché minoranza, sopravvissero riuscendo a salvare integralmente il loro importantissimo patrimonio culturale.
Un eccezionale merito molto aumentato dall’aver resistito alle persecuzioni che hanno purtroppo sempre continuato a subire, alle quali non poterono che reagire con una sempre maggiore introversione.
‘Esperimento’ di altissimo valore, quello ebraico, fondato sul difficilissimo tentativo di far crescere la massa in maniera omogenea, e che ha contribuito a prepararla all’avvento di un’era in cui dovrà riuscire a vivere in maniera ‘democratica’ i valori ‘aristocratici’: termini che scrivo tra virgolette per simbolizzare che il loro significato è ormai da ridefinire.
In ogni modo, nonostante il cristianesimo abbia sempre avuto una diffusione enormemente maggiore, l’ebraesimo, dato l’altissimo valore del concetto di democraticità su cui si basa, non fu da meno nell’influenzare l’occidentalesimo.
Cristiani ed ebrei pian piano si diffusero nel mondo e, stante la loro base comune, continuarono e continuano a essere due modi diversi di applicare una comune regola di vita importante, ma che presso entrambi – in quanto basata su delle astrazioni – non poté che essere fondata sui dogmi, ovvero sull’asserzione puramente impositiva del Dio e delle sue proprietà.
Un’impositività nel richiedere l’adesione ai dogmi per fede fatalmente degenerata nell’uso della scomunica e della recriminazione verso i dissidenti, ma anche della tortura e del rogo.
Quanto al fatto che Cristo fu strumentalizzato, da due diverse posizioni, sia dal nuovo ebraismo (cristianesimo), che da quello vecchio, è noto da sempre alle masse: in tutta l’iconografia di questi duemila anni, nonostante appartenesse anche lui a un popolo di bruni, viene raffigurato come biondo: biondo cioè come i soliti Achei, nei quali la diabolica mente collettiva ha giustamente collocato le sue origini ideologiche.
Le poche parole che gli si possono attribuire con certezza («chi è senza peccato scagli la prima pietra», e poche altre) dimostrano che aveva superato sia la cultura aristocratica che quella democratica trovando la chiave per conciliarle.
Nella frase «chi è senza peccato scagli la prima pietra» egli infatti:
1) non nega il principio meritocratico, perché afferma che chi fosse senza peccato avrebbe lo speciale diritto di colpire, e dunque di dominare;
2) rende quel diritto impraticabile, richiedendo per poterlo acquisire una qualità che può essere solo vantata;
3) nel momento in cui afferma il principio meritocratico – ma ne limita aprioristicamente la praticabilità circoscrivendolo implicitamente alla possibilità di avere sì maggiori diritti, ma solo in presenza di maggiori meriti esattamente verificati e verificabili – legittima di fatto la fallibilità degli uomini e dunque, da un lato, ridimensiona il ‘superiorismo’ degli aristocratici, e, dall’altro, afferma sia il diritto democratico a non subire la prevaricazione nonostante i limiti, e sia l’onere di dover riconoscere i meriti quando vi siano e siano quantificati;
4) affermato questo schema di valori, causa in definitiva un nuovo rapporto di forza sociale in cui forti e deboli si diano atto reciprocamente delle loro esigenze, dei loro limiti e della pretestuosità dei loro contrapposti apriorismi, e vadano alla ricerca di una misura morale da individuarsi ogni volta attraverso lo strumento dell’onestà intesa però come necessità e non come valore.
Gli uomini, invece, cristiani o ebrei che fossero, lasciarono che continuasse a vigere l’onestà solo come ‘valore’ funzionale al ‘regno dei cieli’, e dunque una morale astratta e tendenziosa, come tendenziosi continuavano a essere i loro intendimenti.
Quanto alle concezioni politico-filosofiche di Cristo, quello che non aveva probabilmente considerato, o che forse aveva considerato, ma senza potervi trovare rimedio, era che gli uomini non avrebbero mai accettato una cultura fondata sull’onestà reale fino a quando non fossero stati in grado di costringervisi l’un l’altro, e comunque fin quando non si fosse giunti a un livello di benessere di massa tale che accanirsi nella disonestà fosse divenuto meno vantaggioso e più faticoso che cogliere con poco sforzo i frutti dell’onestà.
In ogni modo sia vecchi che nuovi ebrei avrebbero poi per altri versi dimostrato di avere avuto tutto sommato entrambi buone ragioni sia nel negare, gli uni, la natura divina di Cristo, e sia, nel mediare, gli altri, il suo messaggio con il loro precedente patrimonio.
Quella massa, cioè, non era ancora matura per fare quello che Cristo avrebbe voluto né, data l’arretratezza di quella società, quella maturazione sarebbe stata possibile fin quando, una ventina di secoli dopo, non fosse sopravvenuta la società dei media, capace di irradiare la conoscenza, in un solo istante, in tutto il mondo, sia pure con tutti i ben noti limiti.
E fino a che punto avessero ragione lo si può desumere dal fatto che, nei venti secoli successivi, nessuna civiltà aristocratica, comprese quelle stupende degli orientali, sarebbe mai riuscita a diventare di massa (ma sarebbe stata una contraddizione già in termini) senza l’aiuto dell’influsso della cultura ebraica ed ebraico/cristiana.
Quanto al fatto che, nel mentre, gli ebrei avrebbero dovuto accettare di essere additati al disprezzo degli aristocratici, non c’era niente altro da fare che sopportare.
Solo dopo duemila anni sarebbe stato possibile capire com’era stato difficile fare in modo che tutti diventassero partecipi di quei valori che la cultura aristocratica avrebbe invece voluto fossero patrimonio di una sola classe, e quanta sofferenza ciò era costato da quando, coperti di stracci, litigiosi, scarmigliati e affamati, gli ebrei erano fuggiti attraverso le acque del mar Rosso, ovviamente mai separatesi per far passare quel pugno di irriducibili che – magari mediante gli stratagemmi più subdoli, e a rischio che in una certa fase gli uomini credessero di essere divenuti una massa di punte – sarebbero però riusciti a dare forma e contenuti al desiderio di ognuno di liberarsi quantomeno dalla paura e dalla sofferenza per le forme di prevaricazione più grave.

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Circa il perché la teoria della relatività di Einstein è errata

Circa il perché la teoria della relatività di Einstein è errata,

ovvero circa il cosa è il tempo ed il perché non è relativo alla velocità.

 

La vera intuizione di Einstein fu in realtà che la matematica è solo un’opinione, e che anzi la scienza, le sue formule e le sue equazioni non sono neutrali.
A quel punto, se fosse stato un genio (la genialità implica la positività, sicché non esistono né geni del male né geni del nulla), si sarebbe rivolto verso l’apparato scientifico per tentare di cambiarlo.
Siccome invece era solo un furbacchione, sfruttò la sua intuizione per integrarsi nella “scienza vincente” inventandosi l’indimostrabile teoria della relatività e la relativa, presunta “equazione”.
Perché credermi? Perché per credermi basta saper credere ai propri occhi, dal momento che mi avvalgo del metodo “auto-dimostrativo”, fondato sul fatto che lo stesso lettore, senza l’ausilio o il conforto di nessuno, sia in grado di leggere, capire e valutare quello che legge. Anche se il risultato è che le mie tesi sono quasi sempre condivise ma, tanto sono ovvie, che spesso sfugge al lettore, anche specializzato, che sono sconosciute all’attuale contesto culturale, come nel caso della teoria su cos’è il tempo, la quale, ed eccoci a noi, costituisce l’altrettanto ovvia dimostrazione della falsità della teoria della relatività.
Questo perché la relatività è fondata sul presupposto che il tempo sia una variabile e possa addirittura essere percorso, come sostengono anche quei buontemponi di Zichichi o di Rubbia, il quale ha persino fatto degli esperimenti che a suo avviso dimostrerebbero questa amenità, dato che il tempo, come vedremo di seguito, non è né percorribile e né “relativo” alla velocità.
Per concludere faccio presente che la teoria, come al solito, è scritta in forma narrativa allo scopo di facilitarne la diffusione. Nel ringraziarla dell’attenzione, Le auguro buona lettura.

A. L. Marra

Circa il cosa è il tempo
tratto da “La storia di Giovanni e Margherita”(download)

La realtà muta continuamente la sua forma.
Questi mutamenti di forma della realtà non sono tutti tali che gli uomini li possano percepire.
Ad esempio, la realtà intorno a noi muta di forma perché gli animali si muovono, o le cose leggere vengono spostate dal vento, o perché il sole o la luna o le stelle si spostano nel cielo; e tutto ciò può essere approssimativamente percepito.
Non possiamo però percepire il muoversi delle entità minime all’interno degli oggetti, così come non possiamo percepire i mutamenti che avvengono fuori dalla portata della nostra vista, o su di un continente lontano.
La realtà inoltre assume periodicamente forme che sembrano ripetersi identiche.
Ad esempio, ogni giorno spunta il sole, e la realtà, da questo punto di vista, riassume la stessa forma del giorno prima.
Nel mentre però, durante ogni giorno che si ripete, avvengono miriadi di mutamenti, alcuni dei quali ricorrono innumerevoli volte, come le onde del mare, e altri che hanno una ciclicità più lunga, come la crescita delle piante.
Gli uomini e le altre entità viventi hanno dovuto pertanto ‘convenire’ una forma del conoscere\cultura che consentisse di rapportarsi correttamente fra loro e con questi continui e complessi mutamenti della realtà.
Questa forma del conoscere, modo di vedere, di percepire mentalmente, di pensare, la realtà, è il concetto di tempo.
Il tempo, cioè, è un codice\cultura per individuare le varie forme che la realtà assume ‘istante per istante’.
Ovvero, non esiste alcuna entità autonoma tempo, ma esiste solo una cultura del tempo come convenzione fra gli uomini allo scopo di classificare le innumerevoli forme della realtà che si succedono.
La realtà, in quanto composta unicamente di entità minime in movimento continuo, muta continuamente nella forma, ma giammai nella sostanza.
Le entità individuali minime, gli astri, le persone, si organizzano, si modificano, si riproducono e si decompongono, causando con il loro ‘vivere’ eterno i continui mutamenti di forma della realtà.
Gli uomini allora hanno classificato le varie forme che la realtà assume continuamente a grandissima velocità individuandole con i vari ‘istanti’ del tempo.
Ogni attimo di quel che noi definiamo tempo è cioè un numero di codice che attribuiamo a una fase di sviluppo della realtà, ovvero a una certa forma della realtà.
Ad esempio, se diciamo: 1 gennaio 1800, ore 13, con questo ‘numero di codice’ abbiamo inteso identificare la forma che la realtà aveva in quella fase dello sviluppo.
Ne deriva che quello che noi definiamo scorrere del tempo non è che il succedersi delle forme infinite della realtà.
La forma del conoscere\cultura dello ‘scorrere del tempo’ corre nella stessa ‘direzione’ dello ‘scorrere della realtà’: la direzione dello sviluppo.
La realtà infatti ‘va avanti’, nel senso che si sviluppa ricercando forme aggregative sempre più omogenee.
Il concetto di tempo è uno dei primi segni linguistici\codici di interrelazione che l’uomo abbia istituito, perché l’esigenza di avere un modo comune di individuare e classificare le forme della realtà che si succedono è ancestrale.
Per poterlo ‘visualizzare’ è utile un esempio.
Supponiamo di farci filmare per ‘un’ora’ di seguito nel mentre ci muoviamo fra le cose della nostra quotidianità.
Supponiamo poi di dividere il film ottenuto in un numero molto alto di fotogrammi, pari ad esempio a mille fotogrammi al secondo.
Ebbene, guardando i singoli fotogrammi in successione ci renderemo conto che l’unica cosa che ‘scorre’ nelle immagini sono appunto le forme della realtà, che l’uomo ha qualificato con i vari ‘istanti del tempo’, commettendo poi l’errore di confondere quel mero codice con un qualcosa di esistente di per se stesso.
Ma supponiamo ora di volere invitare un nostro amico a guardare uno dei fotogrammi ottenuti.
Avremo due possibilità.
La prima sarà descrivergli il fotogramma accuratamente affinché, dalla descrizione, lo possa individuare.
Questo primo metodo sarà molto laborioso e per nulla attendibile, poiché il veloce succedersi dei fotogrammi avrà fissato mutamenti della realtà talmente modesti che il nostro occhio non potrà percepirli.
La seconda sarà numerare i fotogrammi e indicare al nostro amico il numero di quello che vogliamo che veda.
Ebbene, nel numerare i fotogrammi non abbiamo fatto altro che quello che fecero gli uomini quando inventarono il tempo per codificare le innumerevoli forme della realtà che si susseguono.
Anche loro cioè, avviliti dalla difficoltà di descrivere o di ricordare le varie forme della realtà e di rapportarle fra di loro per quello che a loro serviva, pensarono bene di codificarle in secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi e anni.
Definirono poi eternità il succedersi infinito delle forme della realtà, passato le forme che ha avuto e non ha più, presente le forme che ha nel mentre viviamo, e futuro le forme che avrà.
Il presente dunque è tutto ciò in cui il passato si è modificato e il futuro si modificherà.
Da una diversa angolazione il codice\linguaggio tempo è però ben altro.
Un qualunque vegetale, ad esempio, ha raggiunto la sua forma durante milioni di anni e attraverso un’evoluzione dovuta a una continua mediazione nel rapporto di forza con le forme della realtà che si succedono.
La forma che ha assunto è quindi il risultato delle ‘esperienze’ che ha fatto e delle ‘consapevolezze’ che ha via via somatizzato nel suo eterno dialogo con tutte le altre entità.
Di talché una semplice foglia ‘saprà’ come ‘leggere’ il codice del tempo, e quando dover nascere, morire, o cambiare.
Una ‘consapevolezza’ somatizzata, si osservi, dovuta al modo in cui è strutturata, e che ci conduce al tema del ‘linguaggio’ come parte integrante della struttura della realtà.
Pur di fronte a tali e tante cose, e ferma restando la necessità di conoscere il passato e di rapportarsi correttamente al futuro, all’incontenibile e all’impercettibile, per ogni uomo ciò che prevale su tutto è la sua quotidianità e la sua vita, e la quotidianità e la vita del suo contesto familiare, sociale e umano.

Per approfondire scarica il volume “La storia di Giovanni e Margherita” >>

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Cause della frigidità, impotenza, omosessualità

Cause della frigidità, impotenza, omosessualità

tratto da “La storia di Giovanni e Margherita”

 

Nel contesto autenticamente patriarcale e repressivo, non poi così lontano da noi, il contratto di coppia richiedeva infatti che la donna celebrasse con se stessa la finzione dell’inesistenza della tensione sessuale anche nei confronti del proprio compagno.
Finzioni che sono l’indispensabile ponte tra l’interiore profondo dell’individuo e l’esterno, perché il modo in cui esso vive interiormente la realtà non può quasi mai essere espresso per come è, ma va sempre rimodellato attraverso le finzioni, che divengono poi sostanza della vita degli individui.
(Finzioni ai cui fini giovano molto anche quei codici, essi stessi finzioni, quali il galateo o la diplomaticità.)
Finzioni il cui successivo affermarsi come culture, dipende da quanto sono funzionali alle esigenze collettive e\o alle volontà sociali prevalenti.
Ecco così che la donna casta, unica accettata dal contesto, doveva essere mero oggetto della sessualità del compagno (necessariamente marito), affinché egli accettasse la già detta delega al sostegno, alla difesa e allo sviluppo suo e della famiglia.
L’uomo aveva così il controllo della vita della donna, alla quale toglieva, negandole la sessualità, l’unico veicolo che, in quel contesto in cui era esclusa da ogni altra cosa che non fosse la vita familiare, avesse per ‘viaggiare’ nel sociale.
Nel contesto attuale, invece, le donne si sono liberate per molti aspetti dalla prevaricazione maschile, iniziando anche a conquistare una sia pure incompiuta orgasmicità e a istituire varie forme di prevaricazione femminile; mentre gli uomini ne hanno tratto profitto per sottrarsi a parte della delega allo sviluppo che gravava su loro.
Orgasmicità incompiuta perché il potere economico l’ha già neutralizzata mediante nuove e più subdole forme di prevaricatorietà, giacché ha bisogno più di prima di interdire la dialogicità, sessuale e non.
Consistendo infatti il consumismo in una forma di asservimento (subordinazione dell’uomo all’economia anziché dell’economia all’uomo), il potere ha avuto bisogno di istituire nuove forme di incomunicabilità, non solo nella sessualità, ma in generale, e le ha realizzate bandendo dai media ogni argomento e persona che potesse innescare il confronto su piani significativi.
Quanto invece all’orgasmicità, l’ha neutralizzata creando una serie di pseudoculture miranti a ridurre la sessualità, orgasmica o non, alla mera genitalità, a partire da quella del «fate l’amore non fate la guerra»: in realtà rivolta ad affermare l’idea che la sessualità sia neutra (per distogliere dal suo fondamentale valore dialogico), e a celare che è così densa di implicazioni che ogni società è lo specchio del tipo di sessualità in essa vigente.
L’incremento dell’orgasmicità femminile non ha pertanto incrementato la dialogicità sessuale, perché l’orgasmicità è necessaria ma non sufficiente per giungervi, richiedendo la dialogicità ulteriori forme di apertura di cui gli individui hanno paura, perché ne mancano oggi le condizioni.
La società, inoltre, non è adeguatamente conscia del fatto che gli individui sono in grado di modellare le loro pulsioni come meglio credono, specie quando lo facciano ‘d’accordo tra loro’, cioè quando il loro modo di sentirle diviene cultura.
Non è insomma ben noto che gli individui, specie in relazione a quelle loro forme della conoscenza che  siano divenute cultura, sono in grado di modellare le pulsioni sessuali per come gli occorre in funzione del tipo di rapporto di coppia vigente, o addirittura che vivono di volta in volta.
Più in generale, non è ben chiaro alla società che l’individuo non prova le sue pulsioni per come esse astrattamente sono, ma solo dopo averle modulate, dentro di sé, fino a trasformarle secondo quanto è ottimale ai fini del contratto sociale, di coppia eccetera.
La società non sa cioè che, se il contratto di coppia che si è istituito, vige, o in cui si crede, richiede la fedeltà, l’individuo non ha difficoltà a dimenticare\ disattivare\rendere microscopiche\invisibilili le sue pulsioni all’infedeltà e al desiderio di altri uomini o donne.
Ecco così che la donna, pur avendo ormai conquistato una certa libertà di esercitare la sessualità e l’orgasmicità, preferisce continuare a non ‘vedere’ la sua sessualità.
Questo perché teme che ‘mostrarla’ al compagno implicherebbe, in una fase storica in cui le regole del nuovo rapporto di coppia non sono chiare, la violazione di uno dei principi fondamentali sui quali è basato il vecchio rapporto di coppia, e causerebbe la rottura dell’unico tipo di contrattualità oggi vigente.
Problemi di rimodellazione delle proprie pulsioni che però non sono certo meramente formali, perché la rimodellazione del modo di percepire le proprie pulsioni sessuali richiede un nuovo tipo di contratto di coppia che implica ruoli diversi, da un lato oggettivamente più impegnativi, e dall’altro difficili in una società come quella attuale.
Per cui è arduo, allo stato, sia per la donna che per l’uomo, infrangere la barriera dell’inconscio fittizio e giungere alla dialogicità.
Anche perché l’incomunicabilità (comunicazione fittizia) ha generato la sfiducia e la paura di tutti verso tutti, e la sessualità è divenuta sempre più strumento per tentare di incidere nell’emozionale profondo dell’altro impedendo l’accesso al proprio, nonché occasione di verifica del muro che ciascuno erge a ciascun altro, e abbatterlo equivarrebbe a esibire le riserve o malanimi di cui la paura ha riempito le coscienze.
La limitazione del sesso al mero scambio genitale è stata cioè creata dal potere per suoi fini, ma serve anche a consentire a ciascuno la celebrazione delle proprie finzioni (in questo caso negative) in rapporto ai ruoli e ai livelli di impegno che intende e si sente in grado di esprimere; perché esprimere maggiore impegno significa andare verso tipi di cambiamento che il potere rende difficili.
Una nuova formulazione (una formulazione democratica) delle pulsioni sessuali è insomma ancora problematica, perché non sono chiari i ruoli e i tipi di contratto affettivo nel cui ambito dovranno interagire, date le grandissime resistenze del potere economico al cambiamento.
Cambiamenti che nessun singolo osa introdurre d’un tratto nella sua vita (come il mio Giovanni), ma che tutti insieme gli individui stanno gradualmente realizzando, sia pure badando sempre a non sopravanzarsi l’un l’altro con una prudenza degna forse di miglior causa.
Quanto poi all’impotenza e all’omosessualità fermo restando che le connotazioni sessuali meritano sempre riguardo e considerazione, perché sono frutto di sintesi profonde indotte dalla cultura e dagli eventi esse sono dovute innanzitutto a degli incidenti lungo il percorso esistenziale degli individui, e quindi a due modi diversi di reagire alle difficoltà (derivate da quegli incidenti) di sostenere i ruoli del proprio sesso cercando di eludere la delega femminile: sempre più improba quanto più la donna asserisce di averla revocata.
Fenomeni la cui diffusione è dovuta però anche al fatto che sono pur essi indotti dal potere (quando non abbiano cause organiche), altrimenti non se ne spiegherebbe la vastità, visto che l’impotenza è una patologia, e l’omosessualità genera una condizione di vita a dir poco disagevole.
Potere economico che causa l’impotenza rendendo difficile la contrattualità sessuale e si adopera per diffondere l’omosessualità, praticamente propagandandola, per spezzare così la bipartizione del genere umano in due sessi e indebolire ulteriormente la società per fini di dominio.
Né è vera, quanto all’omosessualità, la chiave di lettura della sua diffusione in antico, perché, essendosi sempre intesa per vera omosessualità quella passiva (che nella Roma antica era sanzionata con la perdita della cittadinanza), la sua diffusione in altri millenni era essenzialmente legata alla prevaricatorietà della società e all’esistenza della schiavitù. Benché, esercitarla d’abitudine anche dal ruolo attivo non poteva che determinare un assuefarvisi o anche un appassionarvisi.
Omosessualità dovuta, a volte, oltre che alla difficoltà di sostenere il contratto eterosessuale di coppia, anche alla difficoltà di reggere in generale i ruoli legati al proprio sesso, per cui l’individuo si volge verso i ruoli tipici del rapporto omosessuale, meno definiti, onerosi e stabili, o anche verso quelli dell’altro sesso, che peraltro, se dovesse ricoprirli fino in fondo, gli presenterebbero un livello di difficoltà almeno uguale a quelli del suo.

ALM
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Il linguaggio

Il linguaggio

tratto da “La storia di Giovanni e Margherita”

 

Ogni entità dispone di una generica sensibilità che è il portato del suo esistere e coincide con la coscienza di sé.
Ogni entità, utilizzando la sensibilità e l’esperienza, misura le altre entità di cui è fatta la realtà e perviene a un suo modo di vederle.
Quindi, attraverso la verifica del benessere o del malessere che ogni diverso modo di vivere l’esperienza comporta, identifica un modo ottimale di muoversi.
Il modo ottimale di muoversi è il perseguire la volontà di sopravvivere, svilupparsi, riconoscere, essere riconosciuti e raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo.
Tali volontà, in quanto ottimali ai fini dello sviluppo, sono state automaticamente scelte, attraverso la selezione naturale, dal contesto delle entità individuali, e inscritte, a preferenza di ogni altra, quali pulsioni, nel patrimonio conoscitivo di ogni entità.
Per questo motivo le pulsioni originarie costituiscono il sapere originario di ogni individuo.
Questo sapere, in quanto sapere comune e comune modo di vedere la realtà, è la cultura originaria del contesto delle entità individuali.
Si definisce infatti cultura il modo che le entità di un contesto, attraverso il rapporto di forza tra loro, mediano di dover avere in comune nel vedere la realtà.
A un certo livello di specializzazione, la generica sensibilità originaria di cui ogni entità dispone diviene apparato di organi sensorii atti a recepire e comunicare la cultura.
Le entità, quindi, al cospetto l’una dell’altra, ‘detto’ e ‘sentito’ cosa vogliono e come lo vogliono, possono organizzare, dal momento che ‘parlano la stessa lingua’, un modo di muoversi rispondente alle loro esigenze.
Fu così che gli embrioni di quelli che sarebbero poi diventati ‘uomini’ specializzarono la loro generica sensibilità in organi sensorii adatti a comunicarsi le loro culture, sempre più ricche del sapere derivato dalle esperienze di movimento.
Ancora dopo, il crescere della qualità di uomini diede luogo, attraverso lo sviluppo degli organi sensorii, ai primi embrioni di occhio, orecchio, lingua, con i quali quegli ‘uomini’ poterono convenire un codice\linguaggio\cultura tanto evoluto e complesso quanto complesse erano ormai le loro esigenze.
Stabilirono allora, tra l’altro, un sistema di suoni che, in quanto modulabili all’infinito, rappresentarono un modo ottimale per far trasmigrare da un individuo all’altro la ‘forma’ che avevano dato al loro sapere.
Questa comunione di forme del sapere simbolizzate da suoni è ciò che possiamo definire cultura a uno stadio avanzato.
I vari suoni, cioè, assunsero il valore di numero di codice e chiave di accesso a una serie innumerevole di immagini della realtà che essi avevano in comune, o quantomeno credevano di avere in comune.
Ad esempio, il ringhiare di due individui secondo certe tonalità consentì loro di ‘pescare’, nel comune archivio, le immagini corrispondenti.
Tesi dunque nella sfida mortale essi, insieme, ‘videro’, con gli occhi della mente, le immagini sintetiche di tutte le esperienze di violenza che avevano a priori codificato con quella tonalità.
Ovviamente il modo comune di vedere le immagini custodite nell’archivio della cultura è segnato dall’esperienza particolare di ciascuno, e questo da sempre è la causa della difficoltà di comunicare e di avere un modo autenticamente univoco di vedere la realtà.
Con il risultato che i due individui in lotta, pur avendo sufficienti elementi di comunione per identificare quel suono come il segno della necessità della lotta da dover avvenire in un certo modo, in realtà, nello spasmo finale dell’uccidere o dell’essere uccisi, si ispirarono magari, l’uno, alla scena della furia aperta e devastatrice del leone, e l’altro alla fermezza sibilante e implacabile del serpente, credendo nel mentre di star ‘vedendo’ le stesse cose.
Da allora, spinti dal bisogno di ampliare l’archivio comune delle loro immagini mentali, sempre più ricche e numerose, e di schedarle più analiticamente, gli uomini organizzarono i suoni in parole.
La parola equivalse alla classificazione dei suoni in schema vocale ordinato atto a simbolizzare e, direi di più, a far vedere come su di uno schermo circolare e multidimensionale un’immagine apparentemente proiettata dalla mente di tutti gli uomini contemporaneamente e univocamente.
Ovvero sempre con il limite che la proiezione del sapere degli altri, per tutta quella parte legata alla loro esperienza particolare, è solo presunta, ed è proiettata dallo stesso individuo, che la desume per quello che può dall’esperienza di relazione.
Sullo schermo quindi appare un sapere che è la sintesi delle proiezioni che ognuno produce in proprio e per conto di tutti gli altri.
Un sapere che per una parte è autenticamente comune, e per un’altra grossa parte è il risultato di proiezioni tantissime volte arbitrarie, tendenziose o comunque errate.
Ogni parola dunque è la massima espressione simbolica di una cultura.
Più specificamente, ogni parola è il «contenente un contenuto» rappresentato dal massimo del modo comune che gli uomini hanno di vedere la realtà.
Ogni volta che un uomo pronuncia o ascolta una parola essa illumina una parte della sua mente, fatta di immagini, consapevolezze, gioie, dolori, e gliela fa ‘vedere’.
Il succedersi delle parole scatena un fiume di immagini che, un po’ a torto e un po’ a ragione, crede di vedere nella stessa maniera in cui le vede il suo interlocutore.
L’arte è la capacità di descrivere con le parole la realtà che, in quanto sublime, rende sublimi le parole che riescono a farla percepire a ognuno.
Il tacere, il frustrare e il non concorrere allo sforzo comunicativo degli altri causa il più grande avvilimento di chi li esercita e di chi li subisce.
L’incomunicabilità è infatti la negazione di un impegno durato miliardi di anni, attraverso il quale un’entità originaria errante, proveniente da chissà quale spazio, bruta nella sua atroce difficoltà di comunicare, ma sublime nella sua sensibilità, ha ottenuto di poter avere la mano con la quale ti scrivo e gli occhi con i quali mi leggi.